di Giulia Sabella
Tiro fuori dall’armadio la giacca della laurea. Sta dentro la pellicola della lavanderia ed è di una tonalità di verde che non credo esista in natura. Non evoca le placide campagne irlandesi, né i laghi del Nord Italia dopo una pioggia primaverile. È un verde che invece ricorda gli uniposca della cartoleria di papà, gli ombretti in omaggio con Cioè, i ghiaccioli alla menta che si squagliano e ti colano sulle mani mentre li mangi.
All’epoca mia madre mi consigliò di prendere un colore più sobrio. “Così la potrai riutilizzare”, mi disse. “Ma che pensi, che non la metterò più?”, risposi.
Ero davvero piena di buone intenzioni. Mentre stavo lì, a guardarmi nello specchio di un outlet non lontano dall’uscita autostradale, immaginavo che io e quella giacca avremmo spaccato il mondo. Mi stavo laureando: la prima della mia famiglia a raggiungere quel traguardo. Ero fiduciosa, entusiasta, e quel verde trasmetteva la mia passione verso la vita che mi attendeva. E infatti mi laureai e ci furono la lode, gli applausi, la corona di alloro, lo spumante nel chiostro, la serata in piazza, la nausea il giorno dopo. “Dovresti continuare a studiare” disse la mia professoressa, ma io volevo lavorare. Ai primi colloqui mi presentai con la giacca verde e i capelli freschi di parrucchiere, identica a come ero quando avevo discusso la tesi. Guardavo gli altri candidati che come me stavano su quelle sedie scomodissime e dopo un paio di volte iniziai a riconoscerli. Le tipologie umane erano sempre le stesse. C’era chi aveva imparato a memoria la storia dell’azienda, le sue ramificazioni, le sedi e il nome del cane del CEO. C’era chi lavorava a Londra, a Parigi, a Madrid e voleva riavvicinarsi alla famiglia per stare con la madre malata o con il fidanzato stufo di vivere tra voli low cost, aeroporti di periferia e amori consumati due volte al mese. C’era chi stava zitto, gli occhi fissi nel vuoto, le cuffie nelle orecchie, concentrato sul momento in cui avrebbe incontrato l’esaminatore. C’era chi attaccava bottone e se ne usciva con domande del tipo “Ma avete letto dei test fatti in Sri Lanka?”, mettendo tutti nel panico. E poi c’era a chi non gliene importava nulla e stava in disparte, guardandoci di sbieco, con la camicia stropicciata, le sneakers consumate, controllando svogliatamente il cellulare. Quella era la categoria che compativo di più, dall’alto della mia messa in piega e della mia giacca verde. Finito il colloquio, tornavo a casa e raccontavo a mia madre dei complimenti per la tesi e di come ero stata brillante nel rispondere alla domanda sugli ultimi aggiornamenti normativi del settore. Riponevo la giacca nell’armadio e passavo i giorni successivi a controllare mail e telefono, ma gli unici che chiamavano erano quelli che volevano propormi un nuovo abbonamento telefonico o chiedere dei soldi per fermare il massacro dei cani macellati in Cina.
Fu mamma a dirmi di provare il servizio civile in biblioteca. “Sai mai che decidono di tenerti”, mi disse. Non stetti a sottolineare che le sue speranze erano malriposte perché difficilmente un servizio civile si sarebbe tramutato in un posto a tempo indeterminato senza passare da un concorso pubblico. Mi limitai ad annuire e presentai la domanda. Arrivò il giorno del colloquio: doccia, colazione, parrucchiere, giacca verde e via, in macchina.
Mi fecero sedere in una stanza spoglia. In attesa c’eravamo solo io e un ragazzo appartenente all’ultima categoria, quella del “m’importa una sega”. Doveva essere ancora alle superiori, e indossava una maglietta dei Sonic Youth. Se gli unici candidati siamo noi due, forse questa è la volta buona, pensai e venni colta da un improvviso moto di ottimismo che mi spinse a rivolgergli la parola.
“Come ti chiami?”
“Francesco”, disse lui alzando appena gli occhi dal telefono.
“Io sono Michela, piacere”
“Piacere”
“Questa è davvero una bella biblioteca. Piccola ma bella”
“Non saprei, non ci vengo spesso”
“E come mai hai chiesto di fare il servizio civile qui?”
“La tizia che fa i colloqui è mia zia”.
Non chiesi altro e cercai di concentrarmi, senza lasciare spazio a supposizioni. Venni chiamata per prima. La signora davanti a me aveva una cinquantina d’anni, i capelli rossi e una vistosa collana di pietre dure che le scendeva sulla tunica colorata. Cercai di cogliere delle somiglianze con il ragazzo seduto fuori, ma non ne trovai. L’iter fu il solito: i complimenti per la tesi, la domanda sugli ultimi aggiornamenti normativi e perché volevo quel posto. Risposi in maniera impeccabile e a tratti brillante, e ci salutammo con una stretta di mano. Uscii e rivolsi a Francesco uno sguardo veloce. Me ne andai via quasi correndo e passai le settimane successive pensando a lui. Sentivo di essere andata bene, che quel posto doveva essere mio e non riuscivo a vedere in lui un nemico. Probabilmente si era presentato per fare un piacere ai genitori, forse la zia c’era rimasta male per le poche domande ricevute e nessuno aveva mai pensato che lui potesse vincere veramente quel bando. La sua presenza lì era una pura formalità, una cortesia, niente di più. Ero talmente convinta di questa ricostruzione che quando vidi che avevano preso lui mi sentii una cretina. Io, con la giacca verde fresca di lavanderia, i capelli fatti, le scarpe lucidate, il cv in formato europeo stampato a colori nella borsa. E capii quale era la mia casella. Ero la neolaureata come ce ne sono altre mille, dal percorso tanto eccellente quanto anonimo. Una statistica di Almalaurea. E dall’altro lato c’erano Francesco e tutti quelli della casella “m’importa una sega”, perché alla fine che te ne frega di un colloquio quando il lavoro è già tuo? Che te ne importa della camicia stirata, delle scarpe decenti, dei capelli in ordine, quando il colloquio è una pura formalità e gli altri candidati sono solo comparse in un processo di selezione lavorativo reso inutile dalla selezione antropologica che sta a monte? Ma i riti sono importanti, e per rendere tutto socialmente accettabile è necessario che siano presenti anche gli altri casi umani, con buona pace delle coscienze e delle HR. Ecco allora che entro in scena io. La neolaureata con la giacca verde in fibra sintetica comprata in saldo all’outlet di periferia.
Quella è stata l’ultima volta che l’ho messa. Se anche oggi la volessi indossare, sono sicura che non mi entrerebbe. La tolgo dalla pellicola, l’appendo alla porta e scatto una foto, e poi un’altra e un’altra ancora. Scelgo la migliore e la carico su Vinted. Taglia 38, quasi nuova, scrivo. Premo invio. Controllo l’ora e penso che devo tornare in cartoleria a dare il cambio a papà.
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