I fili colorati uscivano dai caschi e correvano lungo le file di candidati, srotolandosi a terra e aggregandosi in affluenti minori, lungo le file orizzontali da dieci posti, e maggiori, lungo le verticali da venti, ingrossandosi in matasse arcobaleno che dovevamo scavalcare fra settore e settore, smarrendosi in rami sempre più ampi fino a sciogliersi nell’ultimo tratto in un cavo di un metro, forse due di diametro. Quest’iride solida, di plastica e rame, scorreva sicura verso il calcolatore centrale che troneggiava sul capannone come un capo tribù.
All’estremità opposta di ognuno delle migliaia di cavi, c’era un elettrodo che si aggrappava dolcemente, penetrandola appena, all’epidermide dei candidati.
«Non so perché si ostinino a volerli esaminare tutti insieme» borbottava il mio supervisore mentre si sbottonava il colletto della camicia per resistere al calore insopportabile di aprile nella depressione costiera di Bologna «Non sarebbe meglio andarsene al mare?».
Il concorso annuale era stato istituito un ventennio prima: fra i miei colleghi c’era ancora chi era stato assunto con il vecchio sistema, ma erano pochi e li riconoscevi perché si aggiravano fra gli uffici dell’Amministrazione Civile Unificata con sguardi spersi, spauriti. Quasi tutti volevano solo andare in pensione e non pensarci più. Erano ancora spaventati, ma ormai al concorso morivano in pochi: come per tutto, in questo paese, ci eravamo ammorbiditi, si era trovato un accomodamento.
Quando il calcolatore inviò la prima scarica, non si mosse nessuno. Si preparavano a resistere. Ma più del dolore, il difficile era non sapere se la prossima sarebbe stata solo un po’ più forte, molto più forte, o mortale (di queste, ne arrivavano sempre meno). Chi resisteva veniva assunto: contratto indeterminato e spirito di corpo, un ufficio caldo d’inverno e fresco d’estate.
All’inizio qualcuno, i soliti menscevichi, protestarono: a cosa poteva servire assumere così? Come giudicare la preparazione amministrativa? Le people skills? Era evidente che non sapevano nulla di come funziona un’amministrazione pubblica. Per lavorarci, il saper sopportare – anzi, forse l’amare – il dolore è una componente essenziale, l’unica importante. Ci permette di non sparare ai consumatori-cittadini, con le loro pretese assurde, la loro strafottenza, i loro diritti inalienabili, i loro casi particolari. Amare il dolore è la strada per una gestione efficiente delle pratiche.
Il calcolatore sibilava allegro, dalle ultime file arrivarono le prime urla: tutto procedeva spedito. Quando il medico concorsuale dichiarò il primo morto, non mi sembrò vero. Erano quasi tre anni che non moriva nessuno. Il secondo e il terzo furono accolti con degli applausi dagli altri guardiani. Ma al quarto e quinto non dicemmo più nulla. Al sesto alcuni candidati chiesero di ritirarsi, pur sapendo che non era possibile. Il mio supervisore era bianco in volto, sudava e parlava continuamente in un cellulare d’ordinanza. Io ero felice: finalmente questi concorsi avevano di nuovo un senso. Al mio erano morti in 12 prima che ci assumessero. Non c’era nulla di male, su duemila partecipanti, era a malapena lo 0,6%.
Al quindicesimo morto, apparve un tecnico del Centro Elaborazione Dati, pelato, jeans e maglione, che si avvicinò al calcolatore, aprì un pannello laterale e collegò altri cavi, spostandone alcuni, staccandone altri. Leggendo il labiale dalle prime file – dove pattugliavo io – diceva “Non c’è nulla che non va”. Al ventisettesimo morto il Dirigente Supervisore entrò in aula. Non era mai successo, di solito non si spostavano dall’ultimo piano se non per inaugurazioni o conferenze. Al trentacinquesimo morto alcuni provarono a strapparsi gli elettrodi finendo elettrificati. La maggioranza rimaneva seduta, occhi chiusi, in silenzio, come gli avevano insegnato. Al sessantesimo morto, appoggiandosi ad un bastone d’argento, elegantissimo, entrò in aula il Segretario Generale.
Fu incredibile: tutti ci fermammo, non osavamo respirare. Sorrideva, rivolgendo sguardi bonari alla sala. Si avvicinò al computer, parlò per un attimo con il tecnico che non si azzardava a guardarlo in faccia.
«Vi chiedo scusa per l’interruzione» scandì con voce rauca «Dovunque vada, porto solo scompiglio» sorrise indicando le sue dodici guardie del corpo.
«Sembra che oggi molti di voi non vedranno la fine di questo concorso annuale. Non è facile, lo so. Ma solo accettando fino in fondo il rischio, lasciando andare ogni speranza di sopravvivere, potrete guadagnarvi il diritto di chiamarmi collega, come io chiamo collega questo bravo tecnico, quel guardiano zelante» e indicò, fra tutti, proprio me.
«Non ascoltate chi ci accusa di crudeltà, come purtroppo fanno anche alcuni servitori dello stato» e calcò la parola ‘servitori’ a tal punto che a qualcuno scoppiò una risata.
«Il dolore è essenziale nell’amministrare la vita dei nostri concittadini: loro vi odieranno, disprezzeranno quello che fate, rideranno delle nostre procedure farragginose. E a questo odio, questo disprezzo risponderete abbracciando il dolore, servendo la Repubblica anche quando non se lo merita».
Dai candidati partì un applauso tuonante, avevo gli occhi umidi anch’io.
«Legalità, imparzialità, efficienza!» urlò.
«Legalità, imparzialità, efficienza!» risposero mille voci all’unisono.
Avevo la pelle d’oca. Il mio supervisore mi mise una mano sulla spalla e ci guardammo sorridenti. Non capitava spesso di condividere un momento del genere, di capire cosa volesse dire lavorare insieme, per un unico scopo, di essere parte di qualcosa più grande di noi, più grande dei moduli da riempire, del tragitto in metropolitana, del caffè alle macchinette.
Morirono tutti: 2478 morti in una mattina. Dopo una commissione d’inchiesta convocata il giorno stesso, sia il tecnico del centro elaborazione dati, sia il suo supervisore, tutti noi guardiani e i nostri supervisori, fummo lodati per la correttezza delle nostre azioni. “Sebbene inusuale nel risultato, il concorso annuale di cui in oggetto si è svolto nel pieno rispetto delle leggi e dei regolamenti vigenti, in un’ottica di leale collaborazione dei servizi e nello spirito meritocratico di questa Amministrazione Civile Unificata”.
Quando entrarono i soldati, io fui fra gli ultimi asserragliati con il nostro Segretario Generale. Loro sparavano e picchiavano i colleghi ai piani bassi, ci chiamavano assassini, criminali, mentre noi emettevamo ordinanze speciali, contingibili e urgenti. Avevamo ancora tempo per fermarli, così ci diceva il Segretario: niente era perduto nonostante il fumo e la distruzione che sempre accompagna le rivolte dei barbari.
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