Di Stefano Ficagna
I fiati che aprono le danze in Ring of fire mi trapanano le orecchie con una veemenza che si riverbera nel gesto scomposto che compio per far tacere la radiosveglia. Nemmeno col post metal più rumoroso ho mai avuto un risveglio così traumatico.
Mi alzo con sotto agli occhi borse che pesano quanto le ore di sonno che mi mancano. Mi specchio sul riflesso della portafinestra in camera: sto prendendo peso , non mi faccio la barba da tre giorni e la schiena sembra voglia incurvarsi verso terra.
Sono le 4:30 di mattina. Fuori il mondo è completamente avvolto dalla nebbia.
Mi butto sotto la doccia nell’illusione di lavare via la stanchezza accumulata: il turno del mattino mi uccide e non c’è verso di prender sonno prima di mezzanotte passata. Asciugo i pochi capelli che mi ostino a tenere sulla testa, una pattuglia sparuta che continua ad arretrare dopo che la linea Maginot della tempie è stata conquistata da tempo. Vado in cucina e preparo la moka, la piazzo sul fuoco e nell’attesa rollo una canna col poco tabacco rimasto e i rimasugli dell’erba che mi ha regalato un amico.
Quando il caffè finisce e la brace è ormai spenta i miei sensi sono abbastanza sedati da convincermi a uscire.
Fuori il gelo è penetrante. Ficco le mani a fondo nei guanti, calco la cuffia in testa e alzo il bavero del cappotto, tenendo a portata di vento solo il naso e gli occhi. Attraverso in bici il tratto che mi separa dal centro del paese, faccio sosta al bar per scofanarmi una brioche calda e mi rollo una sigaretta
Mentre aggiungo fumo alla foschia che mi circonda sento addosso le occhiate dei pochi avventori del locale, che mi guardano come un marziano nonostante sappiano chi sono, come mi chiamo e che ci faccio lì tutte le mattine. Vorrei svegliarmi anche io ogni giorno senza memoria di quello a cui vado incontro.
Mentre riprendo la bicicletta osservo un’insegna fuori dall’edicola. Sul bollettino provinciale parlano di una ragazzina dispersa, il tono è quello dell’allarme generale in previsione di una guerra. Monto in sella e comincio a pedalare: da queste parti la gente scompare a qualsiasi età e solo per due motivi, perché se ne va per sempre o perché ci prova ma non ci riesce.
Prendo la strada che porta verso il bosco, solitario nella notte come l’eroe di un cartone animato che vedevo quando mio padre aveva la mia età. Osservo i sentieri che si aprono ai lati della carreggiata, sembrano finire nel nulla. Forse il giorno che avrò abbastanza energie per fuggire scoprirò che oltre i limiti del paese c’è solo un enorme baratro senza fondo.
Arrivo in azienda con dieci minuti di anticipo, così mi metto al riparo di un albero a fumare ancora. Rollo con mani rese rigide dal freddo una canna misericordiosamente decente, stordendomi mentre dal capannone arrivano i rumori dei macchinari e le voci dei colleghi in attesa del cambio. Spengo la brace sotto la suola e la butto in un bidone della spazzatura, poi con passo più leggero entro dal portone e mi cambio nel gelo degli spogliatoi.
Arrivo a dare il cambio al mio collega proprio mentre nell’aria risuona il timbro apocalittico della sirena. Ci scambiamo un cenno di saluto, poi inizio le mie otto ore da passare graffettando dischi di metallo la cui funzione continuo a ignorare. Ci vuole almeno un’ora prima che cominci a percepire le bestemmie degli operai che lavorano sui forni.
Attendo la liberazione giornaliera con gesti automatici, canticchiando sempre gli stessi album traccia per traccia. Mentre attendo che la macchina compia il suo lavoro faccio qualche squat sul posto, cercando motivazioni per rimettermi in forma che dimenticherò alla sera nei pressi del divano. Quando arriva la pausa caffè con i colleghi parliamo di calcio, di cosa abbiamo fatto nel fine settimana e di cosa faremo nel prossimo: sia benedetta la Champions League che riempie il vuoto pneumatico dei nostri mercoledì altrimenti senza senso. Siamo tutti in mezze maniche anche se è dicembre, qualcuno sfoggia pantaloncini con cui potrebbe andare in spiaggia. Fuori il sole dovrebbe essere sorto, ma non riusciamo a vederlo.
Mentre torno a lavorare guardo i miei colleghi più sfortunati andare alle loro postazioni : il calore dei forni che li attende scotta la pelle anche da lontano. Riprendo a piazzare dischi di metallo nella loro sede e a schiacciare bottoni, innalzando mentalmente una preghiera a chiunque voglia ascoltarla, affinché propaghi quel fuoco fino alle viscere della terra rendendolo inestinguibile e costringendoci a fuggire via, lontano dalla nebbia, rincorsi dal rumore della sirena che per me ora significa solo il passaggio da un inferno all’altro.
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