Di Alice Diacono
Quell’inverno la situazione degenerò improvvisamente.
Un bambino di otto anni, in Veneto, rubò delle caramelle all’Esselunga e fu beccato dalla sicurezza.
In passato si sarebbe lasciata passare come una marachella qualsiasi, ma negli ultimi tempi in Italia l’atmosfera era diventata così tossica e sospettosa che la stessa madre andò a denunciarlo alla stazione di polizia locale.
Il trionfo del giustizialismo si ebbe quando, molto presto, la notizia arrivò sui social accompagnata dalla fotografia del bambino con il volto censurato dai pixel, scatenando un feroce dibattito pubblico che sfociò nella scelta del governo, invocata a furor di popolo, di una pena esemplare.
Venti sculacciate sarebbero state inflitte al ladruncolo in un palasport della Capitale, con tanto di palco e diretta televisiva in prima serata su tutti i maggiori canali nazionali.
Io e i miei amici assistemmo increduli al rapido precipitare degli eventi.
Fin da subito ci attivammo per impedire che questa follia fosse messa in atto, insieme ad attivisti e movimenti del Paese che si mobilitarono con petizioni e manifestazioni di protesta.
Si crearono comitati pro e contro la punizione, in cui i vari personaggi del teatrino politico e mediatico si schierarono secondo convenienza.
Tutta la vicenda appariva come una grottesca parodia della storia di Alfredino, caduto nel pozzo vicino Frascati nel 1981, quando milioni di persone rimasero incollate al televisore per giorni col fiato sospeso, guardando avvicendarsi intorno alla buca speleologi, nani, contorsionisti e nientemeno che il presidente Pertini, finché il bambino non morì sotto gli occhi di tutti.
“Sarà una dimostrazione, un esempio, per far capire agli italiani che è finita l’epoca dei furbetti! Questa è l’era del cambiamento! È il governo dell’onestà!”, dichiarò Di Maio in un’intervista.
“Questo governo se la prende spesso con i bambini” disse mia sorella abbassando lo schermo del computer da cui aveva appena letto la notizia, accarezzandosi la pancia gravida già di tre mesi.
“Si sa, i bambini non possono votare” le risposi.
Venne chiesta l’intercessione di Papa Francesco, considerato di mente aperta e ultimo baluardo della tolleranza cristiana, ma la sua risposta fu inflessibile: “E’ giusto che paghi per i suoi peccati”.
Quel giorno uscii di casa, per le strade della città, dopo tanto tempo da quando era entrato in vigore il coprifuoco per l’allarme PM10. Solo le automobili potevano circolare, munite di speciali filtri. Per le persone era stata emessa un’ordinanza in cui si disponeva la chiusura obbligatoria di tutte le finestre e il divieto di circolazione dei pedoni, se non in caso di estrema necessità, finché il livello delle polveri non fosse tornato sotto i limiti di legge.
Nonostante la benda davanti alla bocca e al naso, non si riusciva a respirare. L’aria sui viali era rossa e densa come durante una tempesta di sabbia e gli occhi bruciavano producendo piccole lacrime che mi colavano sotto gli occhiali. L’unica cosa che si scorgeva in lontananza, in mezzo alla polvere, era l’insegna luminosa dell’Eurospar, dove quasi nessuno andava più e da cui partivano i furgoni per le consegne a casa.
A poco meno di una settimana dalla punizione, il Paese sembrava in preda ad una crisi isterica. Un’intera nazione pronta a riversare sul piccolo capro espiatorio tutta la sua sete di vendetta mascherata da volontà di giustizia. Il delirio sembrava generalizzato; tutti che si preparavano all’evento ormai prossimo, ma non noi.
Presi dall’orrore e dallo sconforto, decidemmo che era giunto il momento di allontanarci per sempre dalla città e rifugiarci tra i boschi, in montagna. Insieme ad amici, compagni, fratelli e sorelle, decidemmo di lasciarci alle spalle la società asfittica e andare a cercare ossigeno altrove.
Contattammo un amico che già da anni era scappato, nasando l’aria che tirava. Ci diede appuntamento in un paese dell’Appennino un martedì mattina, in cui venne a prenderci dicendoci cosa potevamo portare e cosa avremmo dovuto lasciare.
Ci incamminammo sul sentiero che si inoltrava per il bosco, superammo un ponte di pietra e un vecchio mulino abbandonato. Camminammo per quasi tutto il giorno, finché arrivammo ad una vecchia casa bassa e lunga, circondata da pini e abeti ricoperti di muschio.
Posammo i nostri zaini per terra, cominciammo a raccogliere rametti per accendere la stufa.
Mia sorella si sedette sul pavimento della stanza vuota, dove c’era un mucchio di foglie e paglia che probabilmente era già stato il giaciglio di qualcuno ben prima di noi. Si mise una mano sulla schiena stanca e con l’altra si massaggiò il basso ventre.
Provavo sentimenti contrastanti per quel piccolo feto di tre centimetri.
Da una parte rappresentava per noi la promessa di un nuovo inizio di pace e serenità. L’avremmo fatto crescere lì, tra le foglie e i rami di quelle piante magnificenti, dove si potevano vedere ancora le formiche costruire piccole piramidi di terra e il mistero della rugiada si disvelava sugli steli d’erba ogni mattina.
Dall’altra, non potevo fare a meno di considerare come c’è chi ci tiene a lasciare un’impronta, qualcosa di sé su questa terra. Io però non ero tra quelli. Volevo solo che questa storia dell’umanità finisse il prima possibile. Volevo che tutto sparisse, come noi, sommerso per sempre dalla vegetazione, senza lasciare traccia.
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