di Elsa Rizzo (essi vivono)
Ho dimenticato i kaki. Due chili. Frutta zuccherina perfetta per i tè che beviamo con le altre. Credo di averli comprati e di averli dimenticati là, ai piedi delle cassette di frutta. I kaki. Il loro arancione quasi radioattivo risaltava sul grigiore delle verdure circostanti. Spero che qualcuno se ne accorga e li porti a casa. Che li condivida una volta arrivati gli assistenti sociali. Io, almeno, farei così.
Mangio kaki da quando ne ho memoria. Era il frutto preferito del custode del nostro misero condominio. Quello offerto dalla mensa scolastica. Quello che rotolava dentro la mia borsa quando mi dirigevo a piedi verso la fabbrica. Lì, con le mie colleghe, ne addentavamo fugacemente la polpa durante le brevi, brevissime pause. Lo azzannavamo con voracità e ci ripulivamo approssimativamente la bocca con il dorso della mano. Una coreografia sbrigativa. Unica accortezza: non macchiare i tessuti. Anni dopo in un film mi capitò di vedere una donna seduta ad un tavolo mangiare un kaki con un cucchiaino. Spolparlo per imboccarlo a sua figlia. Una cura che credo di non avere riservato a nulla di quanto successo in questa vita. Mi chiedo se sarebbe andata così comunque. Se mai con le altre abbiamo pensato di aiutarci a spaccare i kaki.
Non ho più forza nelle braccia. Forse è per questo che ho dimenticato i kaki. Me ne sono resa conto nel momento stesso in cui li ho comprati che non sarei stata in grado di percorrere quei pochi metri che mi separavano da casa mia. Ne intravedevo il portone ma le mie braccia, prima ancora delle mie gambe, hanno deciso autonomamente. Ho sorriso alla donna che lavora qui sotto e mi sono avviata lentamente. Neanche la forza di sospirare.
Il vassoio che porto a tavola è vuoto. A tavola c’è solo il tè. In sottofondo un telegiornale risuona con le parole dell’assistente sociale dell’altro giorno. Mi sembra si riferisca ad un piano nazionale. Ad una cura collettiva per le nostre dimenticanze. Se io ho dimenticato i kaki qualcuno avrà dimenticato qualcos’altro. Hina si complimenta per la scelta della tovaglia. Rin si accende una sigaretta. Il fumo si appiccica a qualsiasi cosa. Afferriamo invisibili kaki posti al centro del tavolo, ci nutriamo e poi ci ripuliamo, come tanti anni fa, ma senza vigore, senza fretta. Una singola lacrima si fa strada sulla guancia di una di noi. Era quella di Yui?
Mi hanno chiamato l’altro ieri. Giusto due giorni dopo la mia dimenticanza. Mi hanno chiesto quando avessi fatto l’ultimo controllo completo. Di cercare tra le mie carte. Hanno reputato che il tempo trascorso tra la domanda e la mia risposta farfugliata fosse troppo. Bene. Che andassi subito allora. Vengo. L’unica condizione era fare in tempo per il tè. Almeno quello avrei potuto servirlo.
La donna con cui parlo al telefono da ormai due settimane mi chiede se mi va di andare a prendere un tè. Tanto è passato da quando mi hanno detto come andrà a finire. Tanto da quando ho seguito il loro consiglio. Con la promessa di potere tornare indietro in qualsiasi momento.
Questo potrebbe essere l’ultimo tè che mi ricordo. L’altro giorno credo di aver mangiato su un piatto ancora sporco della cena della sera prima. L’avevo lavato. O almeno così credevo di aver fatto. Mi hanno detto che potrei perdere ricordi più preziosi. Le date che mi orientano. I nomi della mia quotidianità finirebbero avvolti da una nebbia. Il percorso verso il fruttivendolo. La marca di sigarette di Rin. Ma io posso bloccare tutto sul nascere. Mi aiuteranno a bloccare tutto sul nascere. Devo solo iniziare a dirlo ai miei cari. A non lasciare che il tempo passi. Perché dopo non ne avrò a sufficienza.
Ci si può scordare di soffrire? Lo chiedo alla donna di fronte a me in questa caffetteria. Sì. Potrebbe comunque provare sofferenza, ma potrebbe scordarsi le parole per esprimerla. Così svuotata, in questo spazio sconfinato, la sua sofferenza non incontrerebbe nessuno disposta ad ascoltarla. Non c’è più nessun ricordo. Non se ne renderebbe neanche conto. Il peggio toccherebbe a noi, lucidi, testimoni, sani. Capisce?
Ho dimenticato la frutta. Non mi è mai successo. Mangiamo l’aria. Ci ripuliamo con la cura di sempre. Dalla finestra avevo intravisto un colore radioattivo. Come potevo arrivarci, però, io non lo sapevo. C’era un qualcosa. Un qualcosa che avrei voluto dire oggi alle altre. Al mio lato sinistro qualcuna mi passa una sigaretta. La accendo e adesso sì, sì, credo di ricordare. Credo che riguardasse questo colore radioattivo che si vede da qua. Come posso raggiungerlo? Mi sembrano preoccupate. Preoccupate e affrante. Ma cosa ho detto?
Mi sono venuti a prendere. Passando di fronte a questa bancarella non penso a nulla. Non registro nessun particolare odore. Neanche quando questo grigiore viene interrotto da questo arancione così acceso. È un attimo. Spero di tornare in tempo. Alle cinque le altre verranno per il tè. E dovrò far trovare loro il frutto che ha scandito le nostre giornate di lavoro. Com’è che si chiamava?
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