Poteva andare peggio, bisogna riconoscerlo.
Però non si può dire che sia andata benissimo.
Comunque non vorrei stare qui a lamentarmi perché: primo, non è da me; secondo, non è da me.
Diciamo, tanto per parlare, che se si potesse tornare indietro e, poniamo, limitare i fatti ad un’unica eventualità catastrofica a scelta tra quelle verificatesi negli ultimi anni; se fosse possibile, e sappiamo benissimo che non lo è, spuntare un questionario a risposta multipla, selezionare una preferenza e risparmiarsi una dose di traumi e questioni che dio solo sa quando riuscirò a smaltire, nell’eventualità smaccatamente ottimistica che riesca prima o poi a smaltirli e se, in ultima analisi, si presentasse l’ipotesi di resettare un paio di faccende che avrebbero spedito fuori di testa quasi chiunque in favore di un briciolo di pace psicosociale in più; ecco allora, sempre nell’ambito della conversazione, del chiacchiericcio, del pourparler, diciamo pure che farei un bel respiro e ringrazierei il cielo per aver solamente seppellito l’unico membro della famiglia che mi abbia mai davvero ascoltata, o mandato in malora una relazione più che promettente, o passato la vita a coltivare ambizioni che non avrei in ogni caso avuto le condizioni di sostenere.
Però, lo ripeterei all’infinito, poteva andare peggio.
Anche meglio, che c’entra.
Una cosa che mi fa pensare ogni volta sono quei tizi che buttano un paio fucili nel bagagliaio, si arrampicano sul tetto di qualche scuola elementare e fanno un casino. O di un grande magazzino. O di una stazione degli autobus. O sull’albero della cuccagna alle fiere del bestiame. Pare che i luminari del settore classifichino questi individui come: seriamente arrabbiati. Ma ecco la domanda: come intercettare il limite tra essere diciamo molto contrariati, beccarsi un paio di batoste niente male, aver avuto qualche anno facciamo ostico ed essere seriamente arrabbiati in quel senso? Potrebbe essere sufficiente, poniamo, aver passato una buona fetta di questa scampagnata terrena sgobbando per somme del tutto irrisorie che finivano dirette nella penicillina degli altri; lavorando, per così dire, come una schiava, per infilare due nozioni tra le sinapsi prossime al trapasso di una vagonata di pargoli dai genitori sofisticati; facendomi il proverbiale mazzo tanto per campare tre minorenni debosciate che nel frattempo si facevano i discretissimi fatti loro; spolpando a sangue una presunta inclinazione alle lettere per produrre scempi scritti male e pagati peggio, e comunque sotto falso nome, sempre a scopo tre debosciate di cui sopra; finendo per rubricare alla voce “perdita di tempo” quello che altri avrebbero chiamato “talento da vendere” e ripiegare sul business degli istituti steineriani, con i corsi obbligatori di girotondi euritmici e i laboratori di ceramica e uncinetto con le dita?
È plausibile.
Ma in caso servisse un rinforzino, ancora giusto per intrattenersi, per fare tre parole, mi piacerebbe tirare in ballo la seguente vicenda familiare, e cioè quando una delle minorenni sopracitate, ovvero mia sorella, non paga di usufruire con soddisfazione dello sfacchinare altrui dal giorno benedetto in cui ha visto la luce, ha deciso, in non troppo rapida ma se non altro implacabile successione, di: incenerire (letteralmente) la cosa più vicina a un prodotto intellettuale soddisfacente che avessi concepito fino a quel momento, rendendo a seguire impraticabile qualsiasi forma di lutto tramite un regime costante di piagnistei che un attimo prima di permutare in rumore di fondo sono stati sostituiti da uno spettacolare tentativo di suicidio; mandare all’aria l’unica possibilità di espatrio che abbia mai avuto, frutto di una delicata operazione di lisciaggio nei confronti di congiunta danarosa che la signorina non si è fatta alcun problema a ingraziarsi non appena l’ha avuta a tiro, accaparrandosi n.1 trasferta nel Vecchio Mondo e n.1 marito scandalosamente ricco ivi reperito anche se la faccenda qui si fa un po’ più complicata e infatti procediamo spediti verso l’ultimo punto ovvero; usurpare il cerchio sacro delle cose degli altri convolando a sontuose nozze nientemeno che con colui che da queste parti definiremmo l’amico d’infanzia che non è solo l’amico d’infanzia; ma non il suo, il mio.
Comunque niente di troppo originale, il contrappasso fisiologico di una bella famiglia numerosa. Grandi colazioni di Natale, questo è poco ma sicuro, ma non è mica uno scherzo filare d’amore e d’accordo con tutti. Il lato positivo è che di solito c’è anche qualcuno con cui le cose vanno realmente a meraviglia. Nel mio caso, ça va sans dire, qualcuna che si è buscata una scarlattina da competizione dai morti di fame della porta accanto e ha tirato le cuoia nel più straziante dei modi, lasciando me a fare i conti con il concetto stesso di avvilimento. Che poi, per essere proprio precisi, quella roba avremmo dovuto prendercela tutte, perché dai vicini infetti ci dovevamo andare in cordata; però poi chi lo sa cosa avevamo di tanto fondamentale da fare e alla fine è partita solo lei e l’epilogo lo conosciamo. Un frangente terribile, non scherziamo, ma a conti fatti l’ennesima conferma che c’è sempre uno scenario peggiore. Mettiamo che fossimo salpate in formazione come da programma, coi cappelli e i cestini e i cappotti e tutta quella paccottiglia che magari in casa loro avrebbe fatto meno tristezza; non ci vuole un genio per una proiezione realistica di quello che sarebbe potuto succedere. Quattro su quattro, un’ecatombe, un disastro. Tutte quante coi cappelli e i cestini e i cappotti sotto sei metri di terra senza aver mai combinato niente che valesse la pena, neanche l’istituto steineriano, neanche il matrimonio milionario, neanche il viaggetto in Europa a spese della vecchia che poi ci ha rimesso la pelle, neanche buttar giù un romanzetto da due soldi, neanche scodellare una mezza dozzina di pargoli e non riesco nemmeno a immaginare l’afflizione e allora davvero mi dico che poteva andare peggio; o forse no.
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