«Il suo è un corpo eccezionale, signora».
«Dice?»
«Ha un fisico per sfornare bambini».
«Non direi».
«Non faccia la modesta, qui sotto va tutto a meraviglia».
«I punti mi tirano».
«Si riassorbiranno».
«In che senso?»
«Usiamo un materiale di sutura riassorbibile per queste lacerazioni, ci vorranno al massimo sei settimane, non se ne accorgerà nemmeno».
«Ah».
«Adesso può riprendere i rapporti con suo marito».
«Come scusi?»
«I rapporti. Con suo marito. Non ha detto che è sposata?»
«Sì, sono sposata».
«Altrimenti lui se ne trova un’altra».
«Posso rivestirmi?»
«Sì, abbiamo finito».
Sposto le gambe dal supporto, mi siedo sul lettino. Scendo appoggiando la punta dei piedi sul pavimento. Le mattonelle sono gelide, irrigidisco i polpacci, poi i muscoli delle cosce, fino ai glutei. Infilo prima i calzini, poi le mutande, infine i pantaloni.
«Mio marito non è così».
«Fanno tutti così, si fidi».
«Nemmeno mi reggo in piedi».
«Può anche non stare in piedi». (ride)
«Mi siedo ancora con la ciambella».
«Gli uomini hanno bisogno di essere rassicurati quando nasce un figlio, di sentirsi ancora maschi».
«Mi serve più tempo».
«Quante storie, con un po’ di lubrificante non sentirà niente. E poi non deve per forza partecipare, lo faccia sfogare».
«Posso andare adesso?»
«Il prossimo controllo è tra quattro settimane, aspetti che fissiamo un appuntamento».
«Va bene».
«Giovedì 18 alle 15.30?»
«Penso di sì».
«Non faccia la timida, poi mi racconterà com’è andata».
Luci al neon intermittenti. Sedute beige in plastica dura. Linoleum. Vernice bianca, rattoppi di intonaco. Un distributore di snack. Una bacheca con tre volantini:
Quando il tuo bambino comincia ad alimentarsi come possono essere le sue feci?
Posizioni per un buon attacco al seno.
Segnali di fame precoci, intermedi e tardivi.
«Posso toccarle la pancia?»
«Come?»
«Ha una pancia bellissima».
«Grazie».
«È alta, è una femmina».
«Non credo a queste cose».
«Però è una femmina, vero?»
«Sì, è una femmina».
«Avrà molte nausee se è femmina».
«Non credo dipenda dal sesso del bambino».
«Però ha molte nausee, vero?»
«Sì».
La mano della sconosciuta mi accarezza la pancia. Io, con le borse della spesa in mano, resto immobile a guardarla, non riesco ad oppormi. Alle casse del supermercato, in coda alle Poste, ai tavolini del bar, aspettando il verde del semaforo pedonale. Tutti vogliono toccarmi la pancia. Il mio corpo è un fatto straordinario da studiare, da osservare da vicino. Il mio corpo è un esemplare unico e irripetibile. Il mio corpo è materia viva da accarezzare per sentirne il battito. Sì, certo, tocchi pure, penso. Il mio corpo non mi appartiene.
«Provi con lo zenzero, per le nausee fa miracoli».
«Grazie, proverò».
Chiudo la porta del bagno, appoggio la mano al lavandino per calare i pantaloni della tuta. Mi guardo allo specchio. Sono passati dieci giorni, dieci mesi, dieci anni? Ho un capello bianco, lunghissimo. La maglietta è bagnata di latte. Mi siedo sul water, provo a spingere, piano, serro i denti e trattengo il fiato finché sento scorrere un rigagnolo caldo. Respiro. Resto ferma, guardo le piastrelle alla parete, la fuga bianca è puntellata da piccole macchie nere. Sarà muffa? Che prodotto dovrei usare per toglierla? Basterà la candeggina? Levo l’assorbente e lo arrotolo in un pezzo di carta igienica, mi chiedo se le perdite finiranno mai. Sfilo le mutande e le appoggio sul piano del lavabo. Mi alzo, mi avvicino al bidet. Sì, le macchie sono proprio di muffa. Mia figlia non ha nemmeno un mese e sono già una pessima madre. Divarico le gambe e piego le ginocchia appoggiandomi al termosifone, sento il freddo della ceramica sotto le cosce. L’acqua ci mette troppo a diventare calda. Giro il rubinetto finché non è tiepida. Faccio scorrere l’acqua senza toccarmi, ho paura di toccarmi. Ho paura di scoprire cosa sono diventata. Resto così, serro i denti e trattengo il fiato, il getto diventa gelido. In quel momento ho un po’ di sollievo, respiro ancora. Mi tampono con un panno di carta usa e getta, di quelli avanzati dall’ospedale. Poi prendo il phon, lo accendo al minimo e lo direziono tra le gambe. Seguo tutte le istruzioni della cartella di dimissioni. Lo spray cicatrizzante non riesco a spruzzarlo nel modo giusto e si appiccica all’inguine. Brucia. Mi chiedo se tornerò mai come prima, anche se il corpo rimarginerà i tagli, anche se la testa annacquerà i fantasmi.
«La paziente ha partorito un feto di sesso femminile di peso alla nascita di 4300gr. Parto vaginale. La paziente ha riportato lacerazioni di II grado. È stato necessario eseguire episiotomia. Perdite ematiche stimate 1200 cc. Emorragia post-partum trattata come da protocollo aziendale. Questa che vedete è la sutura esterna. Mi scusi, può divaricare un po’ di più le gambe?»
«Scusi?»
«Le gambe, se potesse allargare un po’ di più le gambe così da far vedere meglio le tumefazioni agli specializzandi».
«Più di così non riesco».
«Per favore, un po’ di collaborazione».
«Sento male».
«Su, faccia un piccolo sforzo».
«Va bene così?»
«Molto bene. Adesso: chi vuole rimuovere il tampone vaginale?»
La voce diventa più piccola e lontana e frastagliata, o forse sono io che smetto di esistere, per un momento. Penso a quando ero incinta e mi impressionava sapere che gli organi interni erano fuori posto per lasciare spazio alla bambina che cresceva. Penso alla confezione delle calze antitrombo che indossava mia madre in ospedale. Penso allo yogurt in frigo che sarà scaduto. Qualcuno avvicina la faccia alla vagina, dice qualcosa, sento uno strattone, brucia. Un altro prende appunti. Io fisso il camice della ginecologa, la piega sulla spalla è dura e sporgente, deve averlo appeso ad asciugare a una gruccia di quelle di ferro della lavanderia.
Adesso inserisco un dito e faccio due rotazioni.
Mamma, voglio toccarti i nei.
Si può spogliare qui, può lasciare i vestiti sulla sedia.
Adesso faccio pressione sotto la mammella.
Mamma, in braccio.
Non esageri, non fa così male.
Deve restare da sola con sua figlia.
Non faccia storie, abbiamo partorito tutte.
La smetta di chiamare ogni cinque minuti.
Voglio mamma.
Il mio corpo è un fatto straordinario da studiare, da osservare da vicino. È uno scrigno, un forziere. Una cascata che inonda la casa. È maceria viva. È frutto marcio da spremere per estrarne il respiro agonizzante: il mio corpo non mi appartiene. Lo nascondo, il mio corpo. Lo rendo invisibile. Lo cancello. Riescono sempre a trovarlo, riescono sempre a trovarmi. Il mio corpo è toccato, afferrato, trattenuto, spinto. Da guanti in lattice, da polpastrelli gonfi, da strette decise, da unghie cortissime, da mani che sono solo nella mia testa. Lo vedo trascinarsi da una stanza all’altra. Lo vedo mentre si nutre, resta in piedi, si sdraia. Con la pelle in fiamme. Lo vedo mentre s’indurisce in roccia, si inaridisce in sabbia, si disintegra in pulviscolo.
Il mio corpo è un involucro che contiene i desideri degli altri.
Ogni tocco lo fortifica e lo consuma.
Fino a che non resteranno che scaglie.
Grazia dice
Descrizione perfetta e realistica che non si dimentica anche dopo 32 anni come è capitato a me a parte l’emorragia