E’ bella la poesia americana – ti dico, ed è il primo di gennaio – è bella, con tutti quei boschi e i ruscelli, la pesca con la mosca e i cottage di montagna, il trionfo dell’industria pesante, le partite di baseball, quella poesia lì – ti dico, e siamo in macchina; sugli angoli dei finestrini la condensa che si ritira sotto i getti di aria calda. Abbiamo trent’anni, viviamo a più di seimila chilometri di distanza, siamo insieme per le vacanze e il futuro non arriverà mai ed è già qui al tempo stesso.
Tu fai guarda, ti ho preso un regalo: è quel libro di cui parlano nel film che abbiamo visto. Non l’ho letto, ma penso sia il genere di poesia che ti piace, tipo impressioni di provincia, storie di gente tranquilla, persone comuni che fanno cose comuni, le fabbriche, i grandi spazi, il linguaggio lineare, l’epopea, l’epica. Guarda, ti ho comprato l’originale perché in traduzione non si trova – forse in biblioteca ma chi ci va più – e poi perché confido nel tuo inglese. E’ buono? Non lo so, spero di si. E poi sai, questa Paterson non è troppo lontana da dove vorrei trasferirmi l’anno prossimo. Magari, se ti va, potresti venire pure tu.
Sono a casa, apro il libro. La nota dell’autore è un groviglio impenetrabile di frasi oscure. Cerco aiuto su internet, ma trovo solo commenti sulla presunta semplicità di scrittura che avrei dovuto constatare se – come è evidente – lo stato del mio inglese non fosse una merda. Torno sul testo, questa volta i primi versi del poema. Qualcosa su un cane, un cane che si gratta e sono persa di nuovo. Continuo, mi fermo. E’ una bella edizione modaiola quella che hai comprato, col pinguino sulla costola.
Abbiamo trent’anni, viviamo a più di seimila chilometri di distanza, tu parli inglese e io no e il futuro, di colpo, è fatto di parole scritte con l’acqua.
Questo racconto mi è piaciuto molto e non solo per lo stato del mio di inglese, ma perché mi piace come è scritto.