di Gianluca Bartolucci
Tutto quello che c’è da sapere sulla vita è contenuto in Oltre il Giardino di Hal Ashby.
Ne sei sicuro?
Sì, amico mio.
Spiegati meglio.
Discorso complesso.
Cioè?
Sto parlando di vita in un senso profondo.
Per piacere prosegui.
Davvero ti interessa?
Vai avanti.
Vorrei prenderla larga, sai.
Rispetto la tua opinione.
Mi viene da prenderla larghissima. Vorrei parlare di Saussure, di Eco, di semiosi infinita, di sovrainterpretazione, di motori sintattici e semantici, di caffeomanzia e gatti neri, di Stanze Cinesi, di teorie della percezione, di zombie, di AI, di Dei Taoisti, di comunicazione interspecie, di Dennett, di Pigmalione, di anima e amore, di Pinocchio, di Philip K. Dick, di David Foster Wallace. Vorrei parlare di certa arte contemporanea.
Cosa intendi con “arte contemporanea”?
Ti ricordi quella notizia che pareva presa da un film con Alberto Sordi? All’interno del MOMA di San Francisco qualcuno si dimenticò, o finse di dimenticarsi, un paio di occhiali sul pavimento. E nel giro di pochi minuti una discreta folla si radunò di fronte a questi occhiali, semplici occhiali dalla montatura nera, e prese a osservarli con aria pensosa, frizionandosi il mento col pollice e l’indice, teorizzando sull’ambizioso progetto a monte.
Confermo.
Che ti fa venire a mente questo fatto?
Qual è la tua opinione?
Che tutto ci appare significante. Tutto. Non si scappa.
Assolutamente.
Voglio dire che siamo modellati per estrarre necessariamente significato dall’esperienza sensoriale.
Ciò è abbastanza vero.
Pensaci. Pensaci bene. Vuoto e incoerenza ci terrorizzano. Allora scattano meccanismi difensivi. Non solo non si può non comunicare, come pontificavano una volta nelle aule universitarie. Non si può non interpretare.
Dimmi di più, se possibile.
Il soggetto percipiente affibbia ai fenomeni un significato, talvolta un’intenzione (o una mente). Questo il succo del discorso. Questo è successo nel MOMA: dato il contesto, è stato naturale scambiare gli occhiali per un’installazione artistica. Questo ci succede quando osserviamo il percorso di una formica immaginandola perseguire uno scopo consapevole. Questo avviene in tutte le nostre interazioni quotidiane. Questo, forse, ci rende umani. E questo insinua il film. Questo. Oltre a divertire in quel suo modo strambo. Oltre a parlare di esistenze mediate, a citare il monolite kubrickiano, a inscenare il più osceno degli atti sessuali. Parla di vita in un senso profondo. Parla del Mistero Ultimo.
Spiegati meglio.
Poco tempo per scendere nello specifico.
Me ne rendo conto.
Se ti interessa, comunque, guardati anche solo la scena in cui lo sciocco protagonista Chance dialoga col Presidente. Osserva come il Presidente trovi nelle sue laconiche banalità una saggezza e un’arguzia che lo spettatore suppone non gli appartengano. Come tutta una nazione, poi, si convinca della sbalorditiva intelligenza di Chance. Ci sarebbe da parlare di politica, volendo.
Immagino di sì.
Già. Non fartelo sfuggire, davvero. Così capirai. Perché il parallelismo tra gli occhiali e Chance (un ottimo Peter Sellers), perché questi discorsoni, perché il Mistero Ultimo eccetera. Perché talvolta mi viene il dubbio di sovrainterpretare il film in modo che per me alluda proprio alla sovrainterpretazione.
Sembra davvero interessante.
E non ti ho detto nulla. Fidati. Nulla. Rivendendolo mi son preso vagonate di appunti. Un giorno li organizzo e te li faccio leggere.
Sarebbe bello.
Oh sì. Io e te ne parleremmo per ore, amico mio. Per ore.
Ci puoi scommettere.
Magari potremmo cominciare stasera, davanti a una Slalom media. Così mi racconti che combini ultimamente.
Sono d’accordo.
Da un po’ non ti si vede in giro.
Spiegati meglio.
Voglio dire, sei completamente sparito.
Ne prendo atto.
Avrai avuto i tuoi motivi.
Effettivamente.
Quindi?
Hai detto tutto tu.
Facciamo alle 23?
Ottimo.
Solito posto?
Non saprei.
Dai!
In un certo senso sì. 🙂
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