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In fuga dalla bocciofila

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Notturno | Confini

28 Settembre 2020 di Francesca Corpaci

È l’agosto del 2007, o forse il giugno del 2006 o del 2004. Comunque è certo che siamo in vacanza.
Il proprietario del Natura Camping arriva su un Iveco ribaltabile colore un tempo bianco e ora tutto-il-fango-del-mondo, apre il cancello che introduce alla struttura deserta e, senza scendere dal bolide, ci consegna un mazzetto contenente la chiave dei bagni, del gabbiotto dei rifiuti e di una gloriosa Apecar azzurra, oltre che dell’intera baracca. Poi sgomma via.
A ripensarci forse è settembre.

Ai nostri amici spieghiamo che siamo qui per rilassarci, anche se non è chiarissimo a quali schiaccianti fattori di stress dovremmo far fronte dato che, qualcuno potrebbe puntualizzare, non facciamo un tubo dalla mattina alla sera.
Il campeggio dà direttamente sul lago, intorno boschi verdissimi e molto drammatici. Sull’acqua del colore delle benedizioni, libellule gigantesche svolgono il loro ciclo vitale. C’è luce ovunque. L’area adibita alle tende è un prato privo di alberi che degrada verso la riva in una spiaggetta di ciottoli candidi e lisci. Secondo il dépliant plastificato appeso fuori dalla reception può ospitare circa una cinquantina di famiglie, ma l’annata sta andando così così e va a finire che ci siamo solo noi.
In realtà è possibile che sia maggio.

Ci piazziamo esattamente al centro, cosa che al primo accenno di vento si rivela non proprio un capolavoro di logistica, ma sul momento sembra l’unica opzione degna. Il lago è un bacino artificiale realizzato verso la metà degli anni 50, profondo un po’ meno di 100 metri e dalla tipica forma a coccodrillino Haribo. Massima piacevolezza, niente storie truci su paesi sfollati a bastonate, mulinelli killer o bestiame alluvionato. Prima di scomparire derapando sul brecciolino, il proprietario ci indica la diga alla nostra sinistra, che dai fatti dell’11 settembre è presidiata h24 da due tiratori dell’antiterrorismo con l’ordine di sparare a vista. Sulla sponda opposta pare si trovi una pizzeria non male.

Tanto per rimanere coerenti ci atteniamo a un rigido programma di cazzeggio, spezzato due volte al giorno dalla preparazione di pasta all’olio su un fornelletto a butano che dopo un po’ si scarica incanalandoci verso una dieta di cracker senza sale e frutta passita. Il supermercato più in zona è a circa due ore di cammino, e non essendo abbastanza gagliardi per guidare l’Apecar fuori dal perimetro del campeggio, data la freschezza delle rispettive patenti, conveniamo che un ridurre le calorie è solo cosa buona.
Lui ha portato la Super8 dei suoi per girare non si sa quale cortometraggio, con probabilità un western. Ha anche un cappello da cowboy che toglie solo per dormire, elemento che induce a valorizzare l’opzione di cui sopra sebbene questioni quali l’assenza di attori, di diavolerie tecniche varie e dell’immancabile gazebo col buffet permangano irrisolte. Va in giro in costume da bagno premendo bottoni e inquadrando oggetti invisibili, finché un paio di volte quasi non vola in acqua e a quel punto la Super8 scompare nella sua techina.
Io ho riempito lo zaino di una quantità di libri che non solo non leggerò, ma non arriverò mai neanche ad approcciare, e che tuttavia forniscono interminabili argomenti di conversazione in via del tutto speculativa.
Facciamo dei bagni, ci aggiriamo nei paraggi e ogni giorno il sole pare un filo più brillante. Una notte piove e la copertura della tenda si strappa, con conseguente inondazione. Sono momenti a cui penseremo di rado, ma che non dimenticheremo mai.

L’ultimo giorno siamo così consapevoli del presente che decidiamo di celebrarlo con una margherita doppia pasta a metà e una birra. Prendiamo il barchino lasciato in secca per noi e lo guidiamo al largo; lo abbiamo già fatto un paio di volte ma unicamente per fini contemplativi.
Verso il centro del lago iniziano le raffiche. Prima non c’erano e ora sì, ma è anche plausibile che ci siano sempre state, e che il problema risieda in una penosa attitudine alla navigazione. Il motore del barchino è una cosa ridicola, spingiamo tutto a destra ma il vento tira come un cane ed è per puro caso che riusciamo a non ribaltarci, mentre a Ovest l’aria si fa arancione e su più in alto una specie di viola farfalla e le nuvole sembrano riflessi nell’acqua e qualcuno ha rovesciato un camion di miele sulle colline e io mi metto a piagnucolare che non arriveremo mai e lui non dice niente e tiene gli occhi come a mettere a fuoco, e quando provo a inquadrare cosa vedo il cemento altissimo e due tizi minuscoli in cima e uno fa segnali con le braccia e l’altro è tutto raccolto per prendere la mira.

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Postato in: Oceani di autoreferenzialità Tag: confini, documentario, gianfranco rosi, Mostra del cinema di Venezia, Notturno Fai un commento

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