di Marco Renzi
I
Un giorno mi persi al mercato rionale; ero con mia nonna, e lei si era fermata un secondo a tastare le arance al banco della frutta. Un cinese con l’ombrellino in capo catturò la mia attenzione: vendeva accendini luminosi e altre chincaglierie. Mi stavo avvicinando a lui: avrei voluto chiedergli se oltre agli accendini vendesse anche i Power Rangers o le Tartarughe Ninja, ma qualcos’altro mi distrasse. Davanti a me c’era un bambino che mi somigliava parecchio; anzi, a guardarlo bene era tale e quale a me: aveva solo i capelli più lunghi e sudici, indossava una maglietta stinta con la scritta Messico86 e si scaccolava furiosamente.
Ciao, gli dissi, e lui muto. Provai allora a fargli ciao ciao con la mano; ma no, non rispondeva. Ti garbano i soldatini?, gli domandai, e lui intanto seguitava a ispezionarsi le narici, mentre io tiravo fuori da una tasca un militare americano della Seconda Guerra Mondiale e dall’altra un indiano Sioux. Glieli misi davanti agli occhi: Quale ti piace di più? E lui afferrò di scatto il marine verde scuro e se ne fuggì via in mezzo alla folla.
Eccoti qua, credevo d’averti perso, mi fece la nonna, che mi aveva raggiunto coi suoi sacchetti di mele, kiwi, cipolle, pomodori e zucchine: ma niente arance; non erano tanto belle, disse.
II
Sul treno faceva un caldo bestia: dovevo andare all’università per un esame, letteratura latina. Per il primo appello avevo studiato due mesi, ma mi prese il panico e non mi presentai. Dovevo rimediare, andare lì e raccattare un voto decente.
Mi appisolai un secondo e mi sentii in colpa: meglio ripassare un libro a caso dell’Eneide. Tempo dieci minuti, e già era l’ora di scendere, così radunai le mie cose e mi avviai verso la porta e lì, alla mia sinistra, vidi un uomo assai somigliante a mio padre. Lo guardai meglio: era mio padre; ma per qualche arcano motivo era tutto scompigliato, coi sandali ai piedi, un paio di calzoncini floreali e una polo di Sergio Tacchini.
Babbo, come cazzo ti sei vestito?, mi venne da dirgli. Al che lui si girò verso di me e mi tirò uno schiaffo: Pensa per te, finocchio, mi disse. Dopodiché le porte si aprirono e scendemmo: io andai da una parte, e il signore da un’altra. Davvero: come avevo potuto pensare che fosse mio padre? Il caldo mi aveva dato alla testa. Per fortuna, all’esame il professore mi segnò sul libretto un ventotto agile.
III
Quindici settembre. La scuola era ricominciata. La prima ora del primo giorno di scuola mi toccava una prima: avrei dovuto conoscere dei ragazzi nuovi.
Entrai in classe: tutti in piedi. Diedi il buongiorno, feci loro cenno di sedersi, sistemai la borsa e il registro sulla cattedra. Bene, dissi, facciamo l’appello, e a un tratto mi prese un colpo: al centro dell’aula c’era un ragazzino identico a Daniele, mio figlio; non proprio uguale in tutto e per tutto: l’espressione del viso era diversa, d’aspetto sembrava più trascurato. Però per il resto era lui, non avevo dubbi. Mia moglie aveva forse avuto un parto gemellare e all’ospedale ci avevano smarrito uno dei gemelli? Chissà. In ogni modo, come si suol dire, separati alla nascita.
Estetica a parte, l’alunno era del tutto dissimile da Daniele, che avevo mandato in un’altra scuola per evitargli il contatto con me. Tutti i suoi insegnanti me ne tessevano le lodi: educato, intelligente, s’impegna e ottiene risultati. Invece Fabio, il mio studente, si rivelò l’opposto: svogliato e casinista, faceva il minimo sindacale e a fatica otteneva la sufficienza che ero costretto a dargli le poche volte in cui studiava.
Arrivò il giorno dei colloqui individuali; non fu una sorpresa vedere che suo padre era in tutto e per tutto uguale a me: se ci fossimo scambiati i vestiti, avremmo potuto darla a bere a chiunque. Stargli davanti era come guardarsi allo specchio, e non nego di aver provato un certo imbarazzo; al contrario, lui si mostrava tranquillo: gli facevo presente la precaria situazione scolastica di Fabio e mi sorrideva beffardo, come mi stesse squadrando dall’alto in basso, incurante dell’istituzione che rappresentavo.
Mio figlio è un bravissimo bambino, disse, e se prende voti così bassi non è certo colpa sua. Era una reazione tipica di molti genitori: ci ero abituato. Anche se quella volta l’effetto fu strano, giacché quell’uomo mi si rivolgeva con una pacatezza innaturale e al tempo stesso aggressiva.
Non ebbi nulla da aggiungere a quanto gli avevo già detto su Fabio, né tanto meno potevo stare a ribattere a certe affermazioni: ormai ne conoscevo l’inutilità. Mi salutò con una stretta di mano; una mano sgradevole, scivolosa. Uscì dall’aula a passo lento: mi augurai di non rivederlo mai più, di non averci più nulla a che fare.
Chiamai il prossimo genitore; nei pochi secondi d’attesa mi frugai in tasca in cerca del mio portafortuna: un soldatino di plastica scolorito dagli anni. Lo strinsi in un pugno; lo guardai, inspirai forte. Mentre la madre della mia studentessa migliore entrava nella stanza, lo riposi in tasca, e pensai alle belle parole che avrei speso per quella ragazza.
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