Di Alfredo Zucchi
C’è una tendenza, forse banale – forse automatica e consolatoria –, a cercare nelle storie corrispondenze strette con il proprio vissuto. Come se le storie offrissero per davvero prospettive e punti di fuga a chi ne fruisce. Questa tendenza si chiama bovarismo, ma è anche vero che avrebbe potuto chiamarsi kareninismo. È una curiosità interessata, comunque la si nomini: una storia ti chiama, ti punge, ti vuol dire qualcosa – vuole che tu, rispondendo allo stimolo, dica qualcosa. Se negli ultimi mesi mi sono nutrito quasi unicamente di storie e documentari sul narcotraffico, evidentemente non è dovuto al fatto che io abbia intenzione di entrare nel business degli stupefacenti.
Ci sono storie il cui tema è la violenza estrema ed esasperata, in cui la rappresentazione reiterata e ossessiva dell’orrore genera uno slittamento: l’oscenità della violenza diventa la sua banalità (attenzione: banalità è un effetto dell’ingranaggio, del meccanismo di ripetizione). In queste storie c’è bisogno di uno svincolo: un punto, un momento o un campo in cui l’orrore e il suo opposto si ritrovano mescolati e indistinti.
Questo svincolo può essere una scansione temporale, un momento preciso nella storia in cui un personaggio, per epifania, vede o sente le ragioni dell’altra parte. Chiameremo questo artificio dell’intreccio, all’opera ad esempio in Narcos Messico 3, psicologista. Un poliziotto corrotto viene in contatto, senza volerlo, con la madre di una ragazzina stuprata e uccisa. Si accorge molto presto che la stessa sorte sta toccando a decine, forse centinaia di altre ragazzine. Riemerge un conflitto aperto del suo passato: ha provato ad avere figli, non ha potuto. Qui l’iterazione, il climax di violenza che fa da cornice alla narrazione svolge il ruolo di amplificatore: la storia stessa, il suo pathos, spingono il personaggio (come se il personaggio sentisse che i fruitori della storia, noi lettori o spettatori, stiamo di colpo passando dalla sua parte) ad assumere la posizione di responsabilità che gli tocca; è il richiamo del nome del padre: io, poliziotto corrotto, difenderò queste bambine che stanno morendo come se fossero figlie mie, a costo di morire. Su un punto è impossibile dargli torto: quest’uomo morirà.
Poi c’è un altro modo di rappresentare questo svincolo. Si tratta di rendere, fin dall’inizio e nel modo più trasparente possibile, l’ambiguità della compenetrazione tra l’orrore e il suo opposto un fatto, il punto di partenza della narrazione, la sua àncora. Chiameremo questo artificio dell’intreccio, all’opera ad esempio in Puttane assassine e 2666 di Roberto Bolaño, formalista. C’è un personaggio che porta tale ambiguità inscritta nel nome di battesimo. Lalo Cura è un assassino, è il male vibrante e fascinoso; c’è una lista, da qualche parte nella narrazione, dell’insieme dei modi in cui il nostro ha spento le vite altrui: è un artista dell’orrore. Attenzione però: Lalo Cura è stato anche concepito nel deserto e suo padre potrebbe essere Arturo Belano, protagonista dei Detective selvaggi e alter ego dell’autore; è l’unico uomo al mondo in grado di capire e provare ad arrestare la sequela di morti, di strangolamenti e stupri di ragazzine che lavorano nelle fabbriche al confine tra Messico e Stati Uniti, nella peculiare circostanza dell’accordo di libero scambio tra i due paesi (NAFTA), all’inizio degli anni ’90.
Tre effetti discendono a cascata, in questo caso: il richiamo del nome del padre si presenta ambiguo: le pretese che accampa sul nostro personaggio, su ogni personaggio, sono allo stesso tempo impossibili e assolutamente auspicabili; questa ambiguità riflette e nutre l’altra ambiguità, quelle che tiene insieme, mescolati e indistinti, la violenza e il riparo. Questo richiamo, inoltre, non compare di colpo, all’improvviso, come un’epifania; al contrario, è l’àncora e l’amuleto della storia, il suo punto di partenza inamovibile, proprio in cima al testo, nell’epigrafe, quando parla ai figli dell’autore: “Per Alexandra Bolaño e Lautaro Bolaño”. Il conflitto che abbiamo chiamato nome del padre permane dunque aperto e non si riduce alle scelte di un personaggio – nel momento della sua epifania –, ma riguarda le condizioni in cui quest’ultimo si trova ad agire: veicolare l’ambiguità della mescolanza diventa una responsabilità del testo stesso – la responsabilità di trasferirla fuori dalla storia nella sua portata bruciante.
Il fatto è che poi fuori dal testo ci siamo noi: così la ruota dell’ingranaggio continua a girare.
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