L’estate è la stagione della morte, oltre che l’unica stagione in cui, io credo, dovrebbe essere lecito morire. Il calore, le mosche, l’odore dell’immondizia che spacca i cassonetti, il tanfo dei gatti randagi, le cispe incrostate agli angoli degli occhi, le pieghe della pelle unte, scivolose. Il sudore. L’estate.
D’estate, per due anni di fila, sono stata spedita alle colonie: un albergo sull’Appennino dove centinaia di bambini passavano qualche settimana al fresco, intrattenuti da animatori in maglietta e cappellino arancioni. Dormivamo in camerate da sei arrampicati sui letti a castello, la mattina ci svegliavamo con la sigla di un famoso telefilm dell’epoca diffusa via interfono, ci infilavamo vestiti con i nostri nomi scritti sulle etichette e passavamo la giornata giocando a tennis, andando in piscina e succhiando ghiaccioli Lipton pagati con i soldi per le emergenze. Un anno c’erano i mondiali, e le partite passavano sul televisore a colori della sala comune. Noi le guardavamo sdraiati sulla moquette marrone, un microcosmo accogliente, appiccicoso, promiscuo. Alle colonie i più piccoli avevano intorno ai sei anni, mentre i più grandi andavano per i tredici. Durante il mio primo soggiorno due ragazzini sparirono sprofondando il personale nel panico. Vennero ritrovati dopo un paio d’ore sulla strada per il paese più vicino, erano scappati per comprare le sigarette.
Nella stanza accanto alla mia era alloggiata una ragazzina bionda. Avremo avuto all’incirca la stessa età, ma lei manifestava comportamenti e abitudini che io avrei conosciuto solo vari anni più tardi. Annodava le magliette sopra l’ombelico e arrotolava le maniche, a cena sfoggiava tutine aderenti con fantasie alla marinaretta e possedeva un’intera collezione di trucchi con i brillantini. Anche i suoi capelli erano più biondi del normale, e una volta mi spiegò che aveva ottenuto dai suoi il permesso di farsi i colpi di sole. Non era proprio simpatica, ma per qualche motivo piaceva a tutti. Si chiamava Veronica.
La risposta arrivò senza darci il tempo di formulare la domanda. Qualche tempo prima i genitori di Veronica si erano separati, e a settembre sarebbe andata ad abitare con la madre. Evidentemente abituata a libertà ignote alla maggior parte di noi, durante i pasti andava a sedersi ai tavoli degli animatori, e quando due o tre lattine di Coca Cola le avevano lavato via il lucidalabbra potevamo sentirla ridere fortissimo saltando sulle ginocchia dell’istruttore di tennis, o aggrappandosi alle braccia del maestro di nuoto. Seguivano risolini, urla e moti sempre più sguaiati, finché non si accasciava con la testa sul tavolo e qualcuno la prendeva in braccio per portarla di sopra. Mentre ci sorvolava in direzione vano scale ripeteva una nenia infinita e indistinta, come se cantasse.
Tra le attività opzionali avevo scelto il karate, che in sostanza significava passare un’ora al giorno sulla spianata di cemento accanto ai campi da gioco, urlando e sudando disperatamente mentre da poco più in là arrivavano i tonfi freschissimi delle gare di tuffi. Il gruppo era piuttosto sparuto, e sembrava ottenuto da una selezione attenta dei soggetti meno popolari e dotati per lo sport di tutto il centro. Ma l’insegnante era simpatico, sfoggiava denti bianchissimi e quando aveva l’impressione che ci stessimo annoiando rovesciava a tutto volume le più lunga serie di improperi che avessimo mai sentito; una tecnica diversiva che all’epoca ci sembrava il massimo del divertimento.
L’obiettivo del corso non era rivelarci campioni di arti marziali, anche se continuavamo timidamente a sperarlo, ma preparare una dimostrazione di cinque minuti con le sequenze di movimenti che avevamo imparato, da ripetere di fronte a tutti l’ultimo giorno. Una prospettiva talmente spaventosa da farmi accartocciare per l’imbarazzo. Eravamo dieci ragazzini pallidi e con i polpacci grassi, a nessuno importava di quello che facevamo, al massimo ci avrebbero lanciato i tappi delle bottiglie dagli spalti. Ogni volta che tentavo di esporre i miei dubbi senza aspettare che finissi l’insegnante iniziava a esibirsi nelle sue spettacolari evoluzioni linguistiche. Poi ridevo, ridevamo, e proseguivamo sulla strada della disfatta. A fine lezione mi prendeva da parte, mi faceva dei buffetti sulle guance accaldate e diceva dai, sarà divertente, siete bravissimi e dovete farlo vedere a tutti. Sorrideva. Aveva davvero denti incredibili.
Anche se la campagna motivazionale procedeva bene fui molto sollevata dalla notizia che, alla fine, l’esibizione non si sarebbe fatta. Ce lo comunicò il direttore della struttura quasi al termine della seconda settimana. Dopo il discorso inaugurale non si era più fatto vedere, e quando arrivò con le scarpe di camoscio e la camicia sudata, l’unico non contrassegnato dal cappellino arancione con la palla da tennis felice, pensammo tutti all’unisono che fosse successo qualcosa nei boschi, che i criminali avessero rapito uno dei ragazzi grandi e incoscienti che, nonostante gli avvertimenti, avevano continuato a scappare al paese vicino per compare le sigarette. Invece no. Più semplicemente il nostro insegnante aveva avuto un problema in famiglia ed era dovuto partire, gli era dispiaciuto molto e ci mandava i suoi saluti. Per i giorni successivi avremmo dovuto trovarci una nuova attività opzionale.
La sera andai a cercare Veronica, che stava sempre con gli animatori e di sicuro poteva spiegarmi meglio, ma anche lei se ne era andata. Anche stavolta, problemi in famiglia. Il suo armadio era vuoto, il letto rifatto, i trucchi spariti. Non avevo fatto in tempo neanche a chiederle il numero di telefono. A quel punto ripiegai sul maestro di nuoto, il suo preferito, ma senza troppo successo. Sembrava parecchio alterato e riusciva solo a ripetere che le persone non sono quello che sembrano, che la fiducia è una cosa importante, che come istruttore non valeva niente e che uno a volte le disgrazie se le merita. Gli feci notare che stavo parlando di Veronica. Cambiò espressione di colpo, mi disse che era una bambina bella e sfortunata, e che se le volevamo bene avremmo dovuto rispettarla in silenzio. Usò proprio queste parole: rispettarla in silenzio. Sotto al tavolo, i suoi piedi avevano iniziato a ballare.
Quell’anno i miei vennero a prendermi in anticipo. A dire la verità quasi tutti i genitori arrivarono prima dello scadere del termine, ognuno con una motivazione diversa. Ci mancavi troppo, abbiamo deciso di partire prima per il mare, il nonno non si sente bene. Mia madre mi portò un regalo: un walkman rosso e blu di marca Fisher Price, con una cassetta comprata a caso. Misi le cuffie e mi accomodai sul sedile posteriore mentre la macchina si incolonnava sul vialetto lastricato, l’estate seguente avrei passato le vacanze in montagna.
A casa, scaricando le valige, chiesi se a settembre avrei potuto iscrivermi a un corso di karate. Senza fornire spiegazioni, i miei si opposero fermamente.
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