di Tommaso Ghezzi
Sono pochi gli europei che possono vantare il possedimento di un basement. In America, invece, è la cifra planimetrica di ogni buon cittadino di ceto medio. Le villette bianche nei suburbs borghesi delle grandi metropoli, con giardino ben tenuto verdeggiantissimo nelle adiacenze, le staccionate in vernice bianca che perimetrano la sacra proprietà occidentale rispetto ai vicini – ma si aprono all’asfalto, con un grazioso vialetto in ardesia – la bandiera issata poco fuori dal portone in alluminio a taglio termico, e l’immancabile cassetta delle lettere dipinta di rosso a bordo strada, non possono dirsi veramente americane senza basement. Agli americani, gli europei lo hanno sempre invidiato.
È tematica di pubblico interesse quella di capire come le famiglie utilizzino quello spazio. Non c’è una tradizione univoca, un canone di economia domestica che normalizzi la sua gestione. A seconda di come viene sfruttato, è possibile identificare i tipi umani che compongono il soprastante nucleo abitativo.
Ci sono famiglie che lo utilizzano come boiler room, nella quale piazzano la caldaia, il quadro elettrico, la scatola dei fusibili, l’impianto di climatizzazione, le armi, etc. Altri come magazzino o ghiacciaia all’antica, con i prosciutti appesi, le trecce di salsicce, oppure i cesti di vimini, i torchi per il vino o le macine per la carne, le armi, etc. Altri lo intendono invece come una taverna. Il basement è notoriamente caldo d’inverno e fresco d’estate e diventa naturalmente lo spazio nel quale intrattenersi con gli ospiti: e quindi angolo bar, con gli sgabelli alti regolabili, l’impianto stereo hi-fi, la televisione, il biliardo, il tavolo verde dove piazzare sul piatto i Rolex e mettersi le mani in faccia dopo la doppia coppia che perde contro la scala colore, le armi, etc.
Ci sono i self made man che ci costruiscono la palestra privata: e qui si possono distinguere già altre due ulteriori categorie. Ci sono quelli che privilegiano l’edonè della massa muscolare, e di conseguenza optano per una panca bassa con bilanciere, pec deck e lat machine. Poi ci sono quelli che hanno i problemi alle ginocchia: la tendinite, il mal di schiena, la sindrome ileotibiale e tante altre mille complessità che veramente cioè io non posso più correre sull’asfalto e quindi si comprano solo il tapis roulant. Di solito rivestono le pareti con il PVC, montano gli specchi modulari, i supporti per i manubri da 8, 10 e 12 Kg, le aste zavorrate, la barra aerobica, le armi, etc.
Perciò non avere quello che noi chiamiamo seminterrato è quasi un’onta pubblica, un condiviso handicap sociale. Ad esempio Jeffrey Dahmer non aveva il seminterrato, pàrdon, il basement, come giustamente lo chiamavano a Milwaukee. Pare che sia stato proprio questo particolare a fregarlo, alla fine della storia. Ammassava i resti delle sue vittime in badili di ottanta centimetri nel disimpegno tra la camera e il bagno, nel ripiano superiore del congelatore dentro i sacchetti Cuki, tra la svizzerina e i cordon bleu. Infatti lo hanno scoperto dopo nemmeno dieci minuti di perquisizione.
Tutt’altro contesto al di qua dell’Atlantico. In Europa sono pochi ad avercelo, il seminterrato. Solo una piccola élite. Nessuno sa bene come utilizzarlo, tanto che la maggior parte degli europei lo riempie come gli accumulatori seriali americani. Ci rovescia gli scatoloni con gli indumenti estivi d’inverno e quelli invernali d’estate, ci porta le seggiole della veranda quando non servono e il divano vecchio che non è il caso di buttare. Una confusa dispensiera dove si ammassano centinaia di scatoloni, rotoli di plexiglass, ricambi dell’armadio inutilizzati, sacchi neri con dentro i giochi del primogenito, ormai partito per lo SVE a Tallinn. Però senza le armi.
Poi c’è gente come Wolfgang Přiklopil, Josef Fritzl o Armin Meiwes, vabbè, loro fanno eccezione. Loro sì che non hanno mai avuto dubbi su come renderlo funzionale ed ordinato, un cazzo di basement in piena Europa continentale.
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