Mi ricordo le lezioni di storia dell’arte al liceo. Avevo un professore abbastanza giovane per la media del corpo insegnanti, il cui metodo didattico consisteva nel portarci una volta alla settimana in aula video e proiettare delle diapositive. Metteva la cartuccia nel caricatore, chiedeva a qualcuno di spegnere la luce e partiva con la prima, un dipinto fiammingo o un capitello corinzio, a seconda del programma. Quando appariva l’immagine ci chiedeva se sapessimo di cosa si trattava. Poi, senza neanche aspettare la risposta, recitava sconsolato titolo e autore del capolavoro in questione, rimaneva silenzioso per qualche secondo, respirava forte e passava alla successiva. Pare che avesse scritto anche dei libri, ma nessuno di noi ne aveva mai letto uno.
Al termine di ogni trimestre arrivava inevitabile il compito in classe: una lunga sequela di opere in fotocopia di cui dovevamo indicare l’ubicazione geografica. L’Urlo di Munch sta a Oslo, la Nike di Samotracia al Louvre, La Danza di Matisse sia al MOMA che all’Hermitage, e via così. E’ possibile che sia stato a causa di questa prassi giusto un po’ nozionistica che non mi sono mai appassionata alla disciplina, però almeno ho imparato che l’Ara di Pergamo sorprendentemente non si trova a Pergamo, ma a Berlino, smontata e rimontata in un enorme e apposito museo per motivi che credo abbiano a che vedere con quegli indios che mangiano il cuore dei guerrieri più forti per diventare come loro, ma non posso esserne del tutto certa perché in cinque anni di diapositive non ho imparato nulla di storia dell’arte.
Varie estati dopo sono al Pergamonmuseum e mi sento come quando mia madre mi portava a Populonia a vedere i frammenti del vasellame etrusco. So indicare l’ubicazione di quei frammenti e forse anche datarli, ma non mi emozionano. Mi sento arida, impreparata, in mezzo a orde di turisti giovanissimi che invece hanno evidentemente tutti studiato storia dell’arte e da giorni vibravano deliziati all’idea di trovarsi di fronte a una testimonianza così grandiosa di una civiltà estinta. Fuori dall’Isola dei Musei c’è una città che sembra a sua volta poter essere abitata solo da studenti di storia dell’arte, individui coltissimi che, forti di secoli di estetica, vivono in appartamenti pieni di quadri e frequentano in continuazione vernissage di autori contemporanei.
Penso: che cosa farei se vivessi a Berlino, io che non conosco la storia dell’arte? Abiterei in uno di quei palazzi uguali in tutte le città del mondo, con gli appartamenti disposti lungo corridoi illuminati a fluorescenza e i soffitti in cartongesso. Intorno a me, condomini razionalisti di minimo dieci piani. Sui balconi i cassoni dei condizionatori e lavatrici rugginose. Sarebbe sempre novembre e cadrebbe una pioggia gelida e sudicia, mi sveglierei alle 6.50 mentre fuori è tutto grigio e impenetrabile, nessuno avrebbe pulito la gabbia del coniglietto nano sul davanzale e la cucina mi accoglierebbe con l’odore tagliente delle feci animali. Svegliarsi alle 6.50, penso, è una cosa che si fa solo nei luoghi tristi, freddi e inospitali. In tutti gli altri, quelli dove gli uccelli non smettono mai di cantare, non è permesso, o di sicuro non è la stessa cosa. Berlino certo può diventare fredda e magari anche triste, ma non è nota per il suo essere poco ospitale. Lo sarebbe però in via del tutto eccezionale con me, per punirmi del fatto di non aver studiato storia dell’arte. Infilerei qualcosa da mangiare in un contenitore di plastica che introdurrei a sua volta nella tasca interna di un giaccone pesante e molto brutto, e passerei le successive otto ore in un enorme impianto per lo smaltimento dei rifiuti.
Tutte cose, queste, che non succederebbero mai a chiunque possieda anche poche pallide nozioni di storia dell’arte. Quelle persone fortunate, se decidessero di vivere a Berlino, frequenterebbero con tutta probabilità altre persone fortunate come loro, e nei corridoi di importanti accademie concepirebbero opere video in cui un’attrice famosa abita in uno di quei palazzi uguali in tutte le città del mondo, con gli appartamenti disposti lungo corridoi illuminati a fluorescenza e i soffitti in cartongesso. L’attrice famosa si sveglierebbe alle 6.50 ed entrerebbe in una cucina spoglia, con il coniglietto nano ad attenderla e il contenitore di plastica già pieno di cibo unto comprato al despar. Infilerebbe il tutto in un giaccone col pelo sul cappuccio trovato nel guardaroba di un’amica scenografa e partirebbe col motorino del cameraman alla volta di uno stabilimento di riciclaggio dai cui dirigenti sarebbe stato miracolosamente rilasciato il permesso per girare in una delle cabine di manovra macchine.
Ho scoperto recentemente di essere una lontana parente di Piero Adorno, l’autore di uno dei libri di storia dell’arte più usati nei licei italiani. Immagino però che questo non migliorerebbe la mia situazione, se mai decidessi di andare a vivere a Berlino.
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