di Arjuna Cecchetti (essi vivono)
Il vagone di testa del treno delle sette era deserto, fatta eccezione per questa ragazza con i capelli nerissimi e il naso ebreo, anche se poi ho scoperto che lei non era ebrea e che “naso ebreo” non si può dire. Indossava l’uniforme scolastica con lo stemma rosso sul pullover blu e una giacca impermeabile del colore dello stemma. Our Lady, una scuola lontana dal nostro quartiere. Sotto il maglione aveva una seconda o forse era una prima. Ah, non portava le calze e teneva i calzettoni abbassati anche se eravamo in inverno. So tutte queste cose perché quando siamo scesi l’ho seguita fino al marciapiede del Trinity dove poi è sparita salendo sul tram. L’ho seguita quella mattina e quella dopo e quella dopo ancora. Poi, il venerdì, vedendomi entrare nel vagone, si è spostata per farmi posto e per poco non mi è venuto un infarto.
Mi sono seduto e abbiamo cominciato a parlare delle rispettive scuole e dei diversi mezzi di trasporto che eravamo costretti a prendere per raggiungerle e lei ha detto «ho visto che hai la bici pieghevole» e io ho risposto «l’ho chiesta per Natale», e lei «l’hai chiesta a chi?»
Mi sono imbarazzato perché anche se ho quindici anni scrivo ancora la letterina, lo faccio per avere una lista. «L’ho chiesta ai miei», e lei ha fatto una faccia come se avessi effettivamente detto “a Babbo Natale”.
Da quel momento abbiamo viaggiato insieme e una mattina ha detto che quella domenica sarebbe venuta in città per comprare dei fumetti e che se mi andava potevo accompagnarla. Così la domenica mattina ho fatto la doccia, ho saltato il pranzo e sono uscito. Ho aspettato il treno, sono salito sulla prima carrozza, ma lei non c’era. Dopo tre stazioni sono sceso a Howt Junction perché lei aveva mandato un messaggio dove diceva di aver perso il treno delle tre e di essere su quello dopo.
Sono rimasto sulla banchina, poi sono comparsi dei ragazzi che portavano il cappuccio della felpa tirato su. Tra loro c’era qualche faccia che conoscevo e che proprio avrei voluto che non fosse lì, tanto meno quando sarebbe scesa lei. Il treno è comparso in fondo ai binari e allora quelli hanno cominciato a spingersi l’uno con l’altro e poi hanno dato una spinta anche a me.
Da queste parti le spinte sulla banchina vanno di moda, si danno per mettere paura alla gente. Ovviamente è terribile perché si può finire sui binari. Quando il treno si è fermato, loro si sono messi a sputare sui finestrini, così per sport. Le porte si sono aperte e lei è scesa e mi è venuta incontro, vestita con l’uniforme scolastica anche se era domenica. Qui è successa una cosa terribile, i ragazzi le sono passati accanto e l’hanno spinta e lei, che pesa davvero poco, ha sbattuto la spalla sulla lamiera verde del treno e ha emesso un grido acuto e poi ha detto «teste di cazzo!» Lo ha detto. Non me lo sarei mai aspettato. Se lo avessi detto io quelli si sarebbero fermati per picchiarmi e invece hanno proseguito salendo sul vagone di mezzo tra rutti e grugniti.
Lei ha continuato verso di me come se niente fosse, invece io ero pietrificato. Siamo risaliti anche noi, ovviamente su un vagone distante.
Abbiamo chiacchierato un sacco per tutto il viaggio, e anche dalla stazione fino al negozio di fumetti, ma poi una volta entrati lei ha praticamente smesso di parlare. In più non ha acquistato nulla anche se era stata lei a volerci andare. Si è limitata a girare tra gli scaffali senza toccare i volumi, nemmeno uno. Le mani fisse nelle tasche della giacca di nylon.
Ho fatto finta di scegliere dei fumetti mentre in realtà la stavo osservando. Lo sguardo era cambiato, all’improvviso era circospetto come quello di un pettirosso. Allora ho chiesto se andava tutto bene e lei ha fatto di si con la testa e poi mi ha chiesto l’ora e ha detto che avrebbe preso il treno delle cinque e trenta. Anche la voce era cambiata.
Quando siamo usciti una signora trasandata ci ha chiesto delle monete, lei ne aveva una in tasca e gliel’ha data, poi abbiamo proseguito senza intoppi fino a Connoly Station. Lì, però, ci siamo imbattuti di nuovo nel gruppo di ragazzi con la felpa e cappuccio. Avevano formato un cerchio e due di loro se le stavano dando mentre gli altri li guardavano e c’erano lattine di redbull a terra e un odore persistente di fragola nell’aria. Lei, con un fremito del corpo, ha accelerato il passo e mi ha afferrato il braccio e poi lo ha lasciato in fretta. Miracolosamente non ci hanno notato.
Siamo saliti sul treno delle cinque e trenta che era affollato e lei si è seduta sul primo posto libero e io sono rimastoin piedi accanto a lei, tenendomi alla sbarra gialla. Quando stavo per scendere alla mia fermata, le ho detto che se aveva bisogno sarei sceso con lei alla sua e poi sarei tornato indietro, ma lei ha fatto di no con la testa. Allora le ho chiesto se ci saremmo visti la mattina seguente su quello delle sette e lei ha fatto ancora no.
Per tutta la settimana seguente ho sperato di incontrarla sul primo vagone: niente, puff, svanita. L’ho rivista soltanto il lunedì della settimana successiva, ha fatto cenno di sedermi accanto a lei e come nulla ha chiesto se mi fossi cagato sotto quando siamo passati vicino a quelli che se le stavano dando di santa ragione.
Ho pensato che fosse strana, ma ancora non avevo capito quanto.
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