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L’homme qui penche | Appunti sotto le stelle

6 Gennaio 2023 di Redazione

Essi Vivono ST02, ep6

 

di Renzo Favaron

 

 

I

Come se vivere non fosse

che farsi trafiggere dalla pietra

calda, per poi rinascere

all’ombra di un albero

maestoso e che non geme

per le violenze del sole.

 

(Chiunque ha calpestato quest’ombra

non potrà mai scordare).

 

II

Buttare a mare il peso della memoria,

tirarsi via la rogna dei sentimenti.

Nulla di sé.

Solo un distendersi dei muscoli.

Stando qui.

Per ricominciare.

Una fetta di pane o una cicala

data al primo sole.

 

III

Ieri non c’era spesso che poco da dire.

Oggi si va a raccogliere il caco

più alto, prima che arrivi un passero

o, nell’assenza, la falce della luna.

 

IV

Quello che di vicino è segnato

dalle crepe dell’ultima ora,

e a cui non si ha voglia di dare voce.

Eppure, uno può restare solo

con una cosa da torcere.

Non da dire: da divorare.

Getta via le vesti e i viveri

per meglio perderti

o per rialzare gli occhi.

E aspetta là:

il fulmine errante della foresta

o il canto della cicala.

Benché già arrivato,

sei ancora lontano.

Oggi come ieri,

bisogna rifare tutto. Da sé a sé.

Fino al momento in cui

non ci sarà, qui, qualcuno,

re e signore sia la parola

che germoglia sotto la pietra

come l’ortica…

 

V

Che trascorra solo il tempo,

ogni ora messa una sull’altra

come i ciocchi sulla legnaia.

Non rinunciare, ma invocare

sempre l’incontro

se tutto ciò che si getta

nel fuoco vivo non è che dolore.

E questo:

farsi parte per se stessi

e pane quotidiano sia il cristallo di rocca

che fissa e affila, più che saziare.

 

VI

Si arriva a un punto nella vita

che si vuole questo isolamento,

questa specie di reclusione

tra alcuni volti, nei suoni di una lingua

che non si conosce, lontano

da ciò che si lascia dietro.

Uno spossessamento. Un nuovo battesimo.

Impercettibilmente, come se si capitasse

in un posto di cui non si conosce il nome.

Arrivando a casa,

ma senza essere attesi

 

VII

Riunirsi.

Il riflesso dell’acqua sotto

le foglie del fico.

Chiudere gli occhi e ascoltare

l’incessante canto delle cicale.

Nient’altro.

Per una volta lasciarsi accarezzare

dall’aria, finché il sole

non ha asciugato tutte le lacrime

 

VIII

Eccole qui. E tutte in una notte

che si è fatta buia di colpo.

Il loro arrivo è il mio.

Dentro e fuori, pezzi di astri

che calpesto come zolle.

Non più legato, ma libero

di andare, senza orologio né bagagli.

Bentornate, dunque.

E bentornato a me

che rinasco insieme a voi,

che con voi apro gli occhi

e so ciò che ho lasciato indietro

e non ha che il cipresso accanto.

 

Ero come uno che ha perso

la voglia di vivere.

Ma non è il momento di cedere

all’ipnosi della memoria,

di chiudersi con il fiore.

No, sopra e sotto, vicine e lontane,

in cielo e in terra ci siete voi

sorelle che guidate i miei passi

dove si apre un passaggio.

Dove la parola dura.

E fino a che non sarà

di nuovo visibile il traghettatore

resterò ad ascoltare la favola

che ogni notte raccontate,

di qua e di là del mondo,

a tutti quelli che non hanno

niente più che voi per compagnia.

 

IX

Quanti non sono in nessun luogo?

Tornare e restare qui.

Là siamo solo per degli attimi:

il lavoro, la casa, il paese.

Come se l’ape non fosse la stessa

o il cielo non ruotasse con il sole.

Eppure anche qui

si tratta di non perdere il filo:

altrimenti tutto ha luogo,

ma alla rovescia.

Oppure si capita sempre,

come là, ma da un’altra parte.

 

X

Culminano fin dove possono

anche i pensieri,

come quando si rimette piede

in un luogo dell’infanzia

e  ci si trova ad abbracciare

se non quello che non c’è più.

Meglio sarebbe

non tornare mai, voltarsi

e procedere piano piano

o anche solo aspettare

che il vento gonfi la randa.

Senza prima né dopo affogare

in fondo al mare orologio,

ogni pensiero incanutito

o pregno di nostalgia.

 

“Così qualche volta” dice

il secco e affilato traghettatore,

“ritrarre il passo

e in su uscire, sotto le stelle,

piuttosto che rimpiangere

la vecchia compagnia…”

 

 

 

Renzo Favaron, nato a Cavarzere nel 1958, vive e lavora a San Bonifacio. Ha pubblicato alcune raccolte di poesia in lingua (Voci di interludio, Di un tramonto a occidente, Al limite del paese fertile e Piccolo canzoniere più bugiardo che vero) e in dialetto (Presenze e conparse, Testamento, In cualche preghiera, Nostos par passadoman, Balada incivie, tartufi e arlechini, Diario de mi e de la me luna e Teatrin de vozhi e sienzhi). E’ autore di racconti e romanzi brevi (Esordi invernali, Dai molti vuoti, La spalla e L’aspetto della sibilla e il ricatto del pane). Collabora con lit-blog che si occupano di poesia e narrativa.

 

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