Essi Vivono ST02, ep6
di Renzo Favaron
I
Come se vivere non fosse
che farsi trafiggere dalla pietra
calda, per poi rinascere
all’ombra di un albero
maestoso e che non geme
per le violenze del sole.
(Chiunque ha calpestato quest’ombra
non potrà mai scordare).
II
Buttare a mare il peso della memoria,
tirarsi via la rogna dei sentimenti.
Nulla di sé.
Solo un distendersi dei muscoli.
Stando qui.
Per ricominciare.
Una fetta di pane o una cicala
data al primo sole.
III
Ieri non c’era spesso che poco da dire.
Oggi si va a raccogliere il caco
più alto, prima che arrivi un passero
o, nell’assenza, la falce della luna.
IV
Quello che di vicino è segnato
dalle crepe dell’ultima ora,
e a cui non si ha voglia di dare voce.
Eppure, uno può restare solo
con una cosa da torcere.
Non da dire: da divorare.
Getta via le vesti e i viveri
per meglio perderti
o per rialzare gli occhi.
E aspetta là:
il fulmine errante della foresta
o il canto della cicala.
Benché già arrivato,
sei ancora lontano.
Oggi come ieri,
bisogna rifare tutto. Da sé a sé.
Fino al momento in cui
non ci sarà, qui, qualcuno,
re e signore sia la parola
che germoglia sotto la pietra
come l’ortica…
V
Che trascorra solo il tempo,
ogni ora messa una sull’altra
come i ciocchi sulla legnaia.
Non rinunciare, ma invocare
sempre l’incontro
se tutto ciò che si getta
nel fuoco vivo non è che dolore.
E questo:
farsi parte per se stessi
e pane quotidiano sia il cristallo di rocca
che fissa e affila, più che saziare.
VI
Si arriva a un punto nella vita
che si vuole questo isolamento,
questa specie di reclusione
tra alcuni volti, nei suoni di una lingua
che non si conosce, lontano
da ciò che si lascia dietro.
Uno spossessamento. Un nuovo battesimo.
Impercettibilmente, come se si capitasse
in un posto di cui non si conosce il nome.
Arrivando a casa,
ma senza essere attesi
VII
Riunirsi.
Il riflesso dell’acqua sotto
le foglie del fico.
Chiudere gli occhi e ascoltare
l’incessante canto delle cicale.
Nient’altro.
Per una volta lasciarsi accarezzare
dall’aria, finché il sole
non ha asciugato tutte le lacrime
VIII
Eccole qui. E tutte in una notte
che si è fatta buia di colpo.
Il loro arrivo è il mio.
Dentro e fuori, pezzi di astri
che calpesto come zolle.
Non più legato, ma libero
di andare, senza orologio né bagagli.
Bentornate, dunque.
E bentornato a me
che rinasco insieme a voi,
che con voi apro gli occhi
e so ciò che ho lasciato indietro
e non ha che il cipresso accanto.
Ero come uno che ha perso
la voglia di vivere.
Ma non è il momento di cedere
all’ipnosi della memoria,
di chiudersi con il fiore.
No, sopra e sotto, vicine e lontane,
in cielo e in terra ci siete voi
sorelle che guidate i miei passi
dove si apre un passaggio.
Dove la parola dura.
E fino a che non sarà
di nuovo visibile il traghettatore
resterò ad ascoltare la favola
che ogni notte raccontate,
di qua e di là del mondo,
a tutti quelli che non hanno
niente più che voi per compagnia.
IX
Quanti non sono in nessun luogo?
Tornare e restare qui.
Là siamo solo per degli attimi:
il lavoro, la casa, il paese.
Come se l’ape non fosse la stessa
o il cielo non ruotasse con il sole.
Eppure anche qui
si tratta di non perdere il filo:
altrimenti tutto ha luogo,
ma alla rovescia.
Oppure si capita sempre,
come là, ma da un’altra parte.
X
Culminano fin dove possono
anche i pensieri,
come quando si rimette piede
in un luogo dell’infanzia
e ci si trova ad abbracciare
se non quello che non c’è più.
Meglio sarebbe
non tornare mai, voltarsi
e procedere piano piano
o anche solo aspettare
che il vento gonfi la randa.
Senza prima né dopo affogare
in fondo al mare orologio,
ogni pensiero incanutito
o pregno di nostalgia.
“Così qualche volta” dice
il secco e affilato traghettatore,
“ritrarre il passo
e in su uscire, sotto le stelle,
piuttosto che rimpiangere
la vecchia compagnia…”
Renzo Favaron, nato a Cavarzere nel 1958, vive e lavora a San Bonifacio. Ha pubblicato alcune raccolte di poesia in lingua (Voci di interludio, Di un tramonto a occidente, Al limite del paese fertile e Piccolo canzoniere più bugiardo che vero) e in dialetto (Presenze e conparse, Testamento, In cualche preghiera, Nostos par passadoman, Balada incivie, tartufi e arlechini, Diario de mi e de la me luna e Teatrin de vozhi e sienzhi). E’ autore di racconti e romanzi brevi (Esordi invernali, Dai molti vuoti, La spalla e L’aspetto della sibilla e il ricatto del pane). Collabora con lit-blog che si occupano di poesia e narrativa.
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