di Viola V. Giacalone
Chiunque lo ami, sa che Wes Anderson, un signore alto che indossa completi di velluto a costine e fa film nichilisti e stilosi, ha casa a Parigi. I giornali dicono che l’abbia presa a Montparnasse, nel quartiere dei grandi multisala e dei vecchi teatri, ma noi altri non ci crediamo.
Certo, condividiamo la città con molti personaggi immaginari, ma lui è troppo. Per molti di noi giovani cinefili, Wes Anderson è un punk, una leggenda. Sostanzialmente: è uno dei suoi personaggi. In pratica: non esiste. Ecco la ragione per la quale, quando iniziò a materializzarsi ovunque noi ci trovassimo, il mondo si capovolse, esplose, e insomma, realtà e finzione si fusero senza rimedio, e ancora ci chiediamo il perché.
Iniziò tutto con Owen Wilson. Una sera cenavo tranquillamente da Lipp (ovviamente non fui io a pagare) quando sento la porta d’ingresso spalancarsi. Mi volto, come si confà a una signorina disturbata durante il pasto, e chi vedo? Owen e suo fratello Luke, che avrete visto in quasi tutti i film che Anderson ha fatto (In Bottle Rocket, i due danno il loro meglio, a mio avviso).
Non ho il tempo di realizzare che i due sono scomparsi, ma li incontro qualche ora dopo all’Hotel Costes: c’è stato uno scambio di battute ma i ricordi sono confusi. Sono certa che Owen avesse un cappellino.
Facciamo un salto in avanti. L’anno successivo. Sono in coda con la mia fedele compagna F.F per entrare in un locale che “va un casino quest’anno”, per citare Zoolander. Siamo in coda da ore, e ormai non c’è più il rischio di divertirsi, quando veniamo prese a spintoni. Perché? Deve passare Owen Wilson.
Entrando nel locale, aveva alzato irrimediabilmente il livello di figagine e non fecero entrare né me né F.F a causa, ahimè, dei nostri tristi trench beige. Per qualche tempo non guardai più film con Wilson, ne avevo piene le tasche di lui.
All’epoca della triste vicenda dei trench, il mio amico M. stava scrivendo la sua tesi di master sulla collaborazione tra Wes Anderson e Prada. Passavamo le serate a discutere (che vergogna) dei suoi ultimi cortometraggi, io dandogli del venduto, lui dandogli del genio pop. Un giorno guardo il telefono e trovo una chiamata persa da M. Mi preoccupo, visto che non mi chiama mai, e lo richiamo. Gli trema la voce:
«M. per la miseria parla, che è successo?»
«L’ho visto… abbiamo parlato… ha detto…»
«Ma chi?»
«Wes Anderson»
«Racconti balle»
«Stavo seduto al bar, l’ho visto passare e gli sono corso dietro, abbiamo parlato della mia tesi e…»
«Sì, ma ce l’aveva il completo in velluto?»
Quell’apparizione ci mise in uno stato di totale estasi. Quando mi annoiavo durante i corsi guardavo fuori della finestra pensando che in ogni caso, là fuori, Wes Anderson c’era.
Per molti mesi nessuna notizia da Wes. Poi l’annuncio che sarebbe venuto a Parigi per una retrospettiva a lui dedicata. Io e M. prendemmo i biglietti per andare a un cinema poco fuori Parigi, dove avrebbe presentato una selezione dei suoi film preferiti.
Il cinema Le Méliès è un grande edificio grigio, austero. Sembra un centro commerciale qualsiasi ma l’apparenza non deve ingannare, perché è un cinema dal cuore tenero: è uno dei più attivi nell’ambito della ricerca, ospita conferenze destinate agli studenti ogni settimana, e ha un vasto repertorio di vecchi film. Sorge nella piazza di Jean Jaures, nel dipartimento di Montreuil. A una prima occhiata, questo comune si presenta come una cittadina del Far West. Ci sono due cafés, uno di fronte all’altro, accanto al cinema, e si fanno concorrenza. Uno si chiama “Il Café salé” e l’altro “Les indécis”. Abbiamo scattato qualche foto come turisti prima di entrare in sala. M. aveva stampato la sua tesi e ne aveva portato una copia per darla a Wes. Il film era David Golder, un gioiello francese poco conosciuto degli anni 30 di Julien Duvivier, da un romanzo della brillante Irene Némirovsky, figlia dell’alta borghesia russa rifugiatosi a Parigi negli anni 20. Il protagonista David, è un ebreo polacco molto povero ma ambizioso che nel corso degli anni ha messo su una fortuna. Costretto a letto da un malanno, è torturato dalla moglie che vuole i suoi soldi e dalla figlia Joyce, creatura che ama moltissimo e a cui non sa rifiutare niente. La mia scena preferita è quando Joyce e il suo bell’amante prendono la Roll Royce e scappano in campagna, fanno l’amore nell’erba alta e si bagnano in un ruscello.
Alla fine del film Wes appare sul palco, e dopo la conferenza io e M. andiamo a lasciargli il malloppo di 300 pagine che probabilmente non leggerà mai (Scusa M). Gli ho stretto la mano troppo a lungo e lui mi ha sorriso. Aveva un completo a costine di velluto giallo. La sera stessa andammo a vederlo al Christine 21, ma questa è un’altra storia.
Per molto tempo Wes sparì da Parigi e dalle nostre vite, fino al giorno in cui, mentre ero seduta a bere al Baroudeur, un bar di dubbio gusto, a un’ora imprecisata del pomeriggio, mi passa davanti a braccetto con la moglie, Juman Malouf, che per chi non la conoscesse, è una scrittrice libanese che esibisce pettinature vertiginose. Gli ho urlato qualcosa a voce troppo alta e lui ha detto “How are you?” come solo lui sa fare. Hanno guardato meglio il bar e hanno deciso di girare al largo. Io ho ordinato un altro giro di birre per festeggiare l’irrealtà e poi non l’ho più rivisto.
Il bello dei tuoi racconti è che fai vivere al lettore le tue impressioni, semplicemente, naturalmente….è ok!