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In fuga dalla bocciofila

Blog dal titolo fuorviante in cui si parla di cinema tra una divagazione e l'altra

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La ragazza d’autunno | La guerra (non) è finita

21 Gennaio 2020 di simone lisi

Nel quartiere nuovo sono ancora alla ricerca di un bar per fare colazione.

Quando dico “nuovo” non intendo che il quartiere sia di recente costruzione e non è neanche vero che da poco tempo mi sono trasferito in questa zona, due anni, tuttavia continuo a pensarlo così: nuovo.

Il quartiere di Sant’Ambrogio, a Firenze, ha moltissimi bar.

C’è quello dove sono simpatici e fanno il caffè buono, ma le paste non sono un gran che. C’è quello degli australiani, in cui sono sorprendenti sia le paste che il caffè, ma non c’è modo di parcheggiare il motorino. C’è quello gestito dalla mia vecchia fidanzata P. che però farci colazione diventa ogni volta impegnativo come una seduta dall’analista. E infine c’è quello vicino a Piazza dei Ciompi, che è quello in cui, malgrado tutto, tendo sempre a tornare.

È un bar gestito quasi esclusivamente da donne sui quarantanni o poco più. Una sembra molto alta, ma forse dipende dalla pedana, una specie di trespolo su cui lei si erge fin dal mattino e vi scende solo a sera inoltrata, per poterti passare brioche e cremini. È una donna vagamente anodina e come lei ce ne sono altre, diverse ma simili, che a turno stanno su quella pedana o nei paraggi. Hanno per lo più capelli tinti di rosso, indossano maglie di colore verde, sebbene di verdi differenti tra loro, che richiamano la carta da parati e l’insegna là fuori. Ci sono anche due uomini a fare caffè e cappuccini, ma hanno un ruolo ancillare rispetto alle donne, sempre uno o due passi indietro. Il bar è in mano alle donne e anche la padrona, che a volte compare in negozio rendendo il lavoro di tutti macchinoso, è una signora anziana e energica, come in fondo ci si aspetterebbe.

La cosa straordinaria di questo bar, oltre a avere una pasticceria eccellente e una caffetteria semplicemente buona, è la capacità che hanno queste donne di non considerarmi, di ignorarmi quasi io non esistessi. Una donna parla delle sue cose (il bambino che ha 39 di febbre, il nuovo turno di lavoro del marito) e quella alta sulla pedana l’ascolta fissamente. Io resto sospeso a aspettare e a ascoltare queste informazioni di cui mi fanno testimone. Ma testimone sarebbe eccessivo perché significherebbe assegnarmi un qualche status, mentre semplicemente esse comunicano tra loro e qualcosa (io) le è scivolato davanti.

A volte in questi momenti imbarazzanti l’uomo della caffetteria che ha appena finito di decorare un cappuccino con la tecnica del latte-art, disegnando con la schiuma un albero o un pavone o forse un enorme pene eretto che schizza sperma per una signora che ne è letteralmente entusiasta, lui viene a sentire cosa voglio per colazione.
Le donne in quel bar hanno un modo specifico di girare la testa, così che se devono guardare da qualche parte e in quella traiettoria vi sono io, riescono ugualmente a non incrociare per nessun motivo il mio sguardo. Incrociare il mio sguardo significherebbe morire o forse dover ascoltare cosa voglio. Mi sono chiesto perché facciano così e se lo fanno con tutti i clienti o solo con me. Forse solo con i clienti di sesso maschile? Su questo interrogativo non ho risposte, certo succede spesso che oltre a me nel bar ci siano altri uomini, ma si tratta quasi sempre di anziani con folti baffi dentro cui si vanno a incastonare pezzi di brioche o schiuma di cappuccini. Con loro le donne del bar tendono a essere più tolleranti. Ma di uomini giovani ce ne sono pochi.

Mi sono chiesto se questo comportamento dipende dal fatto che mi presento di solito intorno alle dieci e mezzo di mattina di giorni lavorativi, con ancora il segno del cuscino sul viso. Se non mi abbiano identificato come un perdigiorno e in questo atteggiamento ostile ci sia del diniego per la mia condizione di eterno studente. Ma non credo sia questo. Sono andato a volte anche di sabato o di domenica, molto presto, prima di entrare a lavoro, e anche quelle volte l’effetto è stato lo stesso. Ostilità mascherata con indifferenza. Mi sono chiesto infine se non dipenda da una certa intrinseca ghigna che caratterizza gli abitanti di questa città, la stessa che mi porta a scrivere che il quartiere è nuovo anche se ci sto da due anni, ovvero questo senso di immobilità medievale per cui io so che qui sarò sempre straniero, solo i figli dei miei figli (progenie che è quasi certo io non avrò mai) riusciranno a essere benvoluti nel bar.

Ma io credo non sia neanche questo il motivo. L’idea che mi sono fatto è che le donne di quel bar hanno combattuto una guerra. La guerra è finita da un anno o al massimo due. Non so esattamente che guerra fosse, ma è stata una guerra durissima, tremenda, una guerra non metaforica. Sono sopravvissute, sebbene fortemente compromesse. Era una guerra contro gli uomini, uomini di cui anche io faccio parte, per questo la mia vista è per loro intollerabile. Io lo capisco bene, e sebbene a tratti vorrei fare presente alle donne del bar che non sia io quello specifico uomo con cui loro hanno combattuto, sono anche consapevole che non fa nessuna differenza. Che in definitiva è giusto così, loro hanno tutte le ragioni per odiarmi.

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Postato in: Oceani di autoreferenzialità Tag: cannes, Dylda, Kantemir Balagov, simone lisi, torinofilmfestival, un certain regard Fai un commento

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