Il corpo è coricato sul fianco destro; le gambe sono distese o solo leggermente ripiegate; il braccio sinistro è posato sul fianco sinistro; la mano destra sta sotto la guancia corrispondente.
Ci sono film che non fatichiamo a definire definitivi. Definitivi perché, una volta usciti dalla sala o appena spento il computer, ci sentiamo esaustivamente pronti ad affrontare il tema in questione – e questo non vuol dire che lo siamo sul serio ma che all’interno dell’economia del film e delle emozioni che ha creato questa sensazione è regina.
Il film di Mary Jimenez (2006), visto due edizioni fa al Festival dei Popoli, è uno di questi, e forse qua l’aggettivo definitivo, il fatto di sentirsi “esaustivamente pronti”, potrebbe apparire un po’ tracotante o inesatto, se non addirittura impossibile. Questo perché il tema affrontato nel bellissimo documentario belga (prodotto dai fratelli Dardenne) è niente di meno che la morte.
È possibile sentirsi pronti a morire? Cosa significa organizzare la propria morte? È il compito di Stéphane, Laura e Anne, tre donne molto diverse (e diverso è il modo che hanno di affrontare la cosa) che si trovano in un centro per malati terminali.
È il compito di tutti. Tutti sappiamo di dover morire ma nessuno ne ha piena coscienza finché non conosce il giorno o il periodo esatti in cui questo avverrà. Da quel momento si diventa tecnicamente dei condannati a morte, mentre prima lo si era solo per sillogismo.
Il chiodo su cui batte il film della Jimenez è quanto la coscienza della propria morte, questa coscienza esperita e non più logica, sia poi un discorso che tocca soprattutto chi alla morte sopravviverà, i parenti e gli amici. Il termine, una volta accettato che deve avvenire, offre al terminante una pace strana e irrevocabile, mentre in chi semplicemente vi assiste resta una domanda sorda e inutile, per sempre senza risposta. Le luce delle stelle collassate continua a viaggiare nello spazio.
Questa apparente banalità si offre chiara nel momento in cui Anne deve organizzare la festa, o dovremmo forse dire la cerimonia, della sua dipartita.
Esiste un’arte di morire e un’arte di dare la vita. Nella posizione del leone disteso, quella suggerita dal titolo, secondo i buddisti si trova il miglior agio per passare nell’aldilà. Il corpo è coricato sul fianco destro; le gambe sono distese o solo leggermente ripiegate; il braccio sinistro è posato sul fianco sinistro; la mano destra sta sotto la guancia corrispondente.
La regista documenta tutto questo senza sostare un solo minuto nella retorica o nel dolore gratuito. Certo si piange molto ma si piange senza amarezza, annuendo.
Se il corpo è mio, come può fare tante cose senza di me?
A volte in Africa piovono pesci. Nei momenti di forte siccità uno stagno può diventare polvere in poche ore e le uova rimaste vengono portate via dal vento. Se le uova entrano poi in un ammasso nuvoloso allora si creano le condizioni atmosferiche perché esse si schiudano; così, nelle successive precipitazioni, i pescolini cadono insieme alla pioggia.
E se non è mio, allora, cosa altro lo è?
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