di Stefano Serri
Vorrei essere un poeta per salvarti la vita.
Sei sopra questo letto, senza capelli, senza forza per alzarti. Dolori in tutto il corpo, anche dentro la bocca. Riesci a mangiare soltanto il ghiaccio. Ti abbiamo operato, poi le flebo, le chemio e la radio. Neppure quella è servita.
Io sono solo un medico. Non ho più nulla da darti. Non ci sono medicine, nessun trattamento è appropriato. Non curano. Non servono.
Senza forza, senza capelli, ma parli ancora, in mezzo ai dolori: continui a ripetere quei versi, forse una delle poesie che spiegavi ai tuoi studenti, o forse una filastrocca che hai imparato a cinque anni. È come se avessi dentro un libro dove trovare sempre qualcosa di nuovo; è un libro senza fondo, un pozzo chiaro. Chissà chi lo ha scritto.
Io non conosco poesie, altrimenti te le direi, tutte quelle che ho imparato o che ho inventato, mentre aspettiamo la tua fine: sì, proprio quella fine che abbiamo rimandato di continuo, rianimandoti comunque, anche quando non volevi. Ma non è servito a nulla, aggiungere giorni. Non sono i giorni che ci curano. Non è il tempo che ci salva.
Vorrei essere un poeta. Saprei tacere per restarti meglio accanto, saprei mettere uno spazio bianco e andare a capo. Saprei che non è un punto, ma una virgola, la morte, e poi voltare pagina, senza paura, perché quello che scrive, anche quando si ferma un momento, ne sono certo, poi ricomincia una pagina nuova.
Rispondi