di Stefano Bonazzi
C’è questa strada che parte dal retro di casa nostra e finisce dritta in mezzo ai campi. Su un lato ci piantano le fragole, l’erba medica e un’altra pianta piccola e verde di cui non mi ricordo il nome (ma faccio finta di saperlo altrimenti papà mi tira uno dei suoi scappellotti sul coppino che mi arriva la scossa fin dietro le orecchie). Sull’altro lato invece ci sta il granturco, con i suoi fusti duri e larghi quanto un pugno, tutti puntati verso l’alto.
Poi c’è quella casa.
Se ne sta là in mezzo, pare una cosa buttata per caso.
È completamente distrutta, metà del tetto crollato, gazze e corvi hanno fatto dei nidi nelle intercapedini, i vetri sono tutti rotti, le inferriate arrugginite e dall’esterno si vedono i pezzi delle travi storte come le ossa spezzate di uno scheletro.
E poi ci sono le finestre.
E le risate che escono da quelle finestre.
Io le sento.
Ogni giorno.
Ancora prima di passarci davanti.
Ridono.
Loro ridono.
Ridono sempre.
Stanno qui da quando sono nato. Non li vedo, non li ho mai visti ma li sento ogni volta che veniamo a fare la nostra camminata, prima e anche dopo, quando la casa ce la siamo lasciata alle spalle per imboccare l’altro sentiero. Devono essere in tanti per fare un baccano del genere. Me li immagino stretti in mezzo alle ombre dei finestroni, schiacciati dietro le persiane del balcone, gobbi e storti sotto le inferriate della cantina.
Ci hanno messo un sacco di transenne e cartelli, attorno alla casa, che dicono di stare alla larga perché lì è tutto pericolante e le mietitrebbie devono farci il giro attorno. C’è un periodo dell’anno, a inizio autunno, in cui le pannocchie sono così alte che il tetto sparisce tra i pennacchi e la casa, per qualche settimana, è come se non esistesse più, inghiottita dalla terra. Le risate, invece, quelle si sentono lo stesso.
Con gli anni ho iniziato a odiarla.
Papà mi ha detto che ci tenevano le persone “uscite di testa”. Io mi sono sempre chiesto come fa una persona a uscire dalla sua testa, voglio dire, mi sembra una cosa davvero impossibile e un po’ assurda. Lui dice che è colpa di questa terra, piatta e senza confini… ogni volta che si guarda l’orizzonte, “la capa schizza via”.
Lo lascio raccontare, papà. Lui ha tutte le sue cose per la testa e io lo so bene che la sera, questa passeggiata nei campi dietro casa, è il suo unico momento di felicità.
Staremmo così bene qui. Io, mamma e papà. Se non fosse per quelle risate.
Io li sento sempre anche la notte, d’estate, con la finestra della camera spalancata e la pioggia che ha saziato le cicale. Tutta quella gente che ride senza mai prender fiato. Io lo so che stanno ridendo di noi.
Stasera ho preso papà per mano. L’ho stretta forte. Il palmo era bollente perché erano giorni che la sbatteva sulla tavola, contro i muri, su mamma. L’ho obbligato a fermarsi proprio all’altezza della casa. Non l’avevo mai fatto prima. Avevo paura. Ho puntato il dito sulle finestre del primo piano, l’ho guardato serio e gli ho chiesto perché.
«Perché non la smettono mai di ridere?»
Papà ha guardato il cielo, poi ha guardato casa nostra, poi ha guardato me e poi di nuovo la sua mano rossa e gonfia che ancora pulsava come un cuore di vitello stretto attorno alla mia mano e alla fine ha sorriso anche lui.
Non l’avevo mai visto piegare la bocca in quel modo.
E poi l’ha aperta.
La sua bocca.
Spalancata.
Con quelle labbra lunghissime e quei cinque denti che uscivano dalle gengive come delle lapidi piantate a caso in una pozza di fango.
Con quell’unico ciuffo di capelli in mezzo alla fronte sudata che adesso si era staccato e in preda al vento svolazzava a sinistra e a destra.
Con quegli occhi che ora guardavano ovunque e altrove, tranne me.
Si è portato le mani allo stomaco, una lunghissima risata si è levata in mezzo allo stradone e io di colpo mi sono ricordato della cavalletta che avevo trovato nel sottoscala. Di quando finalmente ero riuscito a catturarla e metterla dentro la scatola delle mentine zuccherate di mamma. Ho pensato alle mosche e alle zanzare che ogni sera catturavo e lasciavo sotto il coperchio. Quella cavalletta non la smetteva mai di stridere. Masticava e strideva. Ho pensato alla mattina in cui mi ero svegliato e quella cavalletta era diventata così grande e furiosa da far saltare la scatola. Ho pensato a quando ho dovuto liberarla e l’ho vista volare in mezzo al campo. Ho pensato a quello che mi aveva detto mamma, che a volte basta una cavalletta per rovinare un intero raccolto. Mi sono sentito in colpa come quella sera.
Mio padre adesso non la smette di ridere.
Una manciata di gazze e di corvi si sono alzati in volo.
Io guardo verso casa nostra e poi di nuovo verso la casa nei campi. Le finestre sono ancora spalancate, le travi tutte storte, il balcone sempre pericolante ma là dentro nessuno sta più ridendo.
Stefano Bonazzi è nato a Ferrara, dove vive e lavora. Di professione grafico pubblicitario, realizza composizioni e fotografie ispirate al mondo dell’arte surrealista. A bocca chiusa è il suo romanzo d’esordio, uscito nel 2014 per Newton Compton Editore e ristampato l’anno scorso. Nel 2017 ha pubblicato per Fernandel il secondo romanzo L’abbandonatrice. I racconti “Forse abbiamo esagerato”, “Niente Coma” e “Chi urla più forte” sono stati selezionati tra i finalisti del premio Nebbia Gialla 2015, 2016 e 2017 a cura di Paolo Roversi. È presente in numerose antologie, tra cui Gli Stonati (NEO editore). Collabora con la testata Il Loggione Letterario e con la Passeggiata Letteraria di Specchia. Il suo sito personale è: www.stefanobonazzi.it
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