«Lo sapete tutti, no? Ci sono due tipi di persone» dice il passeggero di una carrozza ai suoi compagni di viaggio. È un’affermazione ma anche un indovinello, e gli altri passeggeri provano a turno a indovinare. «Fortunate e sfortunate?» dice uno. «Pallide e smunte?» ribatte con sarcasmo un altro. «Oneste e peccatrici?» «No» sorride l’uomo. «Vive o morte».
Lo sapete tutti, no? Ci sono due tipi di film dei fratelli Coen. Quelli divertenti e quelli seri. Ma il gap tra Il grande Lebowski e Non è un paese per vecchi è forse più stretto di quello che sembra, e il loro nuovo western a episodi, La ballata di Buster Scruggs, fa collassare del tutto la distinzione.
Il Buster del titolo, protagonista del primo episodio, è un pistolero canterino, dal grilletto svelto e dal filosofare facile. Ed è pure un personaggio cartoonesco e sociopatico, una contraddizione ambulante che racchiude in sé gli impulsi gemelli dei Coen come entertainers e come esistenzialisti. Il nostro Buster, insomma, è una controfigura dei fratelli stessi, che con sottigliezza lo usano in chiave auto-ironica. Dei tanti soprannomi che il pistolero snocciola orgogliosamente allo spettatore, quello riportato sulla sua locandina da ricercato, proprio sopra «vivo o morto», sembra una provocazione dei Coen ai loro critici. Dice semplicemente: «Il misantropo».
Potrebbe essere semplice misantropia a spingere questa coppia di grandi registi a usare l’assegno in bianco ricevuto da Netflix, che ha prodotto e distribuito il film, per ideare sei episodi di frontiera tetri e violenti, incentrati sulla morte e la mortalità. O forse è la malinconia tipica dei furbacchioni che invecchiano a spingerli ad affrontare con sincerità la morte come tema cruciale. In molti dei loro primi thriller, come Blood Simple e Crocevia della morte, l’omicidio era semplicemente uno congegno narrativo, ma negli ultimi anni la loro visione della morte sembra essersi fatta più profonda. «Se ti andasse di dormire in una bara, non farti problemi» dice un becchino all’inizio de Il Grinta. E la morte prende molte forme nella Ballata di Buster Scruggs, dalle sparatorie slapstick all’omicidio spietato, dal suicidio alle cause naturali.
Per quanto questa messa in scena dell’iconografia western sia fotografata magnificamente, l’eccellenza del film va ricercata forse più nella dimensione concettuale che in quella pittorica. Una pagina dopo l’altra, una storia dopo l’altra, i Coen sembrano in grado di stordirci, allontanarci e poi renderci di nuovo sensibili al terrore e all’orrore della morte che giace alla radice di ogni cosa, persino dei racconti apparentemente più stupidi. Torniamo al nostro pistolero Buster, per esempio. La combinazione spiazzante tra il suo fare canterino e le stragi che compie, tra il suo ghigno vivace e i suoi occhi spenti e spietati, lo rende progressivamente un personaggio col quale è difficile identificarsi. Un personaggio appunto cartoonesco, quasi un guanto di sfida sia per i fan che per gli haters. Eppure, quando il numero dei cadaveri è ormai schizzato alle stelle e si fa fatica a tollerare Buster, ecco che i Coen rovesciano tutto, trasformando questa versione ottocentesca di Terminator in un’incarnazione della fragilità umana e, forse, persino della divinità.
Uno degli episodi più riusciti, e sicuramente uno di quelli più tetri, è intitolato «Meal Ticket», e sembra giocare diabolicamente con l’idea dell’arte come rifugio dalla realtà. Liam Neeson interpreta il proprietario di uno show itinerante con una singola attrazione: un giovane senza braccia né gambe (il «tordo senza ali») che recita a memoria brani teatrali e letterari che rapiscono gli spettatori. Inizialmente il gioco sembra quello di vedere i grandi classici, svuotati di senso, sfruttati abilmente da un furbo giostraio. Ma via via che si chiarisce la relazione tra il proprietario dello show e il suo protagonista, le cose si fanno più complicate. Come Llewyn Davis, il «tordo» è un performer inerme e sventurato; è un interprete, non un creativo; la sua relazione col proprietario della baracca è meramente opportunistica. Dobbiamo rassegnarci all’arte come strumento per tirare a campare (meal ticket)? L’arrivo di un nuovo rivale nel circuito degli show itineranti è esilarante (SPOILER: una gallina sfruttata come calcolatrice animale), ma sembra alludere a qualcosa che, in un contesto moderno, è grottesco e terrificante. E i Coen, con la loro solita poker-face, lo mettono sul tavolo: che vuol dire dare alla gente ciò vuole, se ciò che vuole è, in definitiva, così ridicolo e arbitrario? Che conseguenze può avere?
L’episodio finale, «Resti mortali», ci riporta alla carrozza dalla quale siamo partiti. I passeggeri si scambiano battute su questioni di vita e di morte e il film sembra quasi schiacciato sotto il terribile peso delle morti che hanno caratterizzato gli episodi precedenti. La carrozza trasporta anche dei cadaveri, che non vengono mostrati, e sorge il sospetto che possano appartenere, in un crescendo «meta», ai personaggi delle storie precedenti. E poi arriva il finale, nel quale l’ambiguità sembra letteralmente chiusa fuori dalla porta. Ripensando alle immagini finali di Barton Fink o di A Serious Man, apertissime all’interpretazione, la decisione di concludere La ballata di Buster Scruggs su una nota di assoluta certezza potrebbe sembrare strana. Ma non è che i Coen abbiano girato le spalle ai misteri dell’esistenza, forse hanno solo deciso di abbracciarli una volta per tutte. E c’è un solo modo in cui le cose finiscono. Lo sapete tutti, no?
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