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In fuga dalla bocciofila

Blog dal titolo fuorviante in cui si parla di cinema tra una divagazione e l'altra

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Juliet, Naked | Una notte abbiamo chiuso gli occhi e al mattino avevamo quasi quarant’anni

13 Giugno 2019 di Elisabetta Meccariello

(lei) Salgo le scale e immagino di trovare il suo corpo inerme, senza vita, in un drammatico abbandono, un braccio cadente a sfiorare il pavimento e gli arti sostenuti a fatica dai cuscini, come apostoli di fronte alla Deposizione di Cristo. Un divano tombale, tra coperte a quadretti e calzini di una settimana. Un silenzio ovattato, assordante, un silenzio di inerzia e decomposizione. La chiave gira nella serratura, ho un brivido, una leggera sudorazione fredda, gelida, dietro il collo. Il divano è un sepolcro vuoto. Percepisco un fruscio dalla cucina, lieve e lancinante. So già cosa sta per succedere ma mantengo la calma, respiro, sarò gentile, respiro, inclinerò la testa per annuire, con la faccia senza espressione. Faccio un passo, due, sorrido, torno indietro.

(Una notte abbiamo chiuso gli occhi e al mattino avevamo quasi quarant’anni. Nemmeno fossimo Tom Hanks. Ieri stavamo seduti su una panchina, al sole, a leggere Alta Fedeltà, stilando le nostre personalissime liste, ma a pensarci bene ieri era vent’anni fa. E cosa è successo in quelle poche, pochissime ore? È stata una notte troppo lunga).

lei – Non si fa così.
lui – Cosa non si fa così?
lei – Quella superficie è delicata, non va pulita così, si rovina.
lui – Sto solo levando le briciole.
lei – Lo so che vuoi dare una mano ma se non sai cosa fare non farlo.
lui – Quindi secondo te non saprei levare delle briciole da un tavolo.
lei – Devi usare un panno.
lui – Un panno?
lei – Sì un panno.
lui – Lo scottex non va bene.
lei – No che non va bene, sei impazzito.
lui – È solo carta.
lei – Vedi che non capisci.
lui – Cosa cambia se uso lo scottex o uno straccio.
lei – Non ti ho detto di usare uno straccio, usare uno straccio tra l’altro è una pessima idea.
lui – Uno straccio, un panno, non c’è tutta questa differenza.
lei – Come non c’è differenza, c’è una differenza enorme.
lui – Guarda che lo scottex è fatto per questo, si usa, si accartoccia e si butta via.
lei – Lo straccio è per i pavimenti, è roba vecchia, grossolana, è sacrificabile, è uno strumento a fine vita, ha già fatto il suo percorso, ha avuto un ruolo nella società, ha avuto i suoi giorni di gloria, i balli a palazzo, ha visto i paesaggi più incredibili, le gite in barca, in montagna, in campagna, ha avuto figli, nipoti, uno stuolo di pronipoti, i regali sotto l’albero, le torte di compleanno, adesso si gode la pensione, sta riposto in un mobile, ripensa alla sua esistenza, ai suoi rimpianti, a quello che ha imparato, alle volte che ha pianto, che ha sorriso, che si è innamorato.
lui – Dovremmo fare più sesso.
lei – Il panno invece ha un certo valore, una morbidezza, una consistenza nobile. Accarezza le superfici, sussurra agli intarsi, la notte scaccia l’uomo nero, i fantasmi, gli acari. Va rispettato il panno, ci aiuta a vivere meglio, a sentirci più forti, ci fa riscoprire i sentimenti.
lui – Eppure c’è una certa gentilezza in quello che dici.

(Arranchiamo per le stanze, apriamo i cassetti, alziamo i tappeti – sconvolti, sembriamo pazzi, furiosi con i capelli arruffati e la faccia paonazza – spostiamo i mobili, svuotiamo i cestini ma di quelle ore non c’è traccia, nessun frammento, nessun segno sbiadito, nemmeno un’impronta da scrutare sotto la lente d’ingrandimento. Dov’è finito il tempo? Dove abbiamo sbagliato? E quando? Deve pur esserci stato un momento in cui abbiamo preso una decisione, oppure non l’abbiamo presa e questo ha cambiato tutto – quando, con chi eravamo, perché non ne abbiamo più memoria – e forse abbiamo detto «che vuoi che sia, ci penserò domani o dopodomani o tra una settimana» e poi i giorni si sono moltiplicati diventando anni, decenni).

(lui) Ho imparato a riconoscere il suo stato d’animo dal rumore delle scarpe sugli scalini e dal tintinnio delle chiavi prima che apra la porta. Quando arriva non dice niente all’inizio, sembra quasi contenta. Anzi, più che contenta direi compiaciuta, non so perché. Mi guarda. Fa un passo, due, sorride, torna indietro. Non è proprio un sorriso, è una specie di ghigno, una smorfia, come di sofferenza trattenuta. I primi tempi non capivo e mi allarmavo. Pensavo a qualche grave problema di lavoro o addirittura di salute. Correvo per abbracciarla, la stringevo. Lei ricambiava con un gesto meccanico. Poi parlava. E la voce aveva un tono diverso, una nota acuta, stridula che ricordava il verso di un animale, o un lamento, un rantolo. Adesso che lo so sono più cauto. Me ne accorgo quando sta friggendo. Vedo un principio d’incendio tra la vena in mezzo alle sopracciglia e l’angolo dell’occhio. E poi il fumo, netto, distinto, partire dal suo orecchio, tagliare tutta la stanza e toccare il soffitto.

lei – Non si fa così.
lui – Cosa non si fa così?
lei – Quella superficie è delicata, non va pulita così, si rovina.
lui – Sto solo levando le briciole.

(E adesso che facciamo. Quando è troppo tardi? È più facile fuggire o restare? Ci penseremo domani o dopodomani o tra una settimana).

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Postato in: La sindrome del personaggio secondario, Lo sfogone, Oceani di autoreferenzialità Tag: Chris O'Dowd, Ethan Hawke, Jesse Peretz, juliet naked, Nick Hornby, ossessioni, quarantenni, Rose Byrne, seconda occasione, Tucker Crowe, tutta un'altra musica Fai un commento

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