La Manna si è messa una mano sul collo e per un attimo le è parso che quella non fosse la sua mano e quello non fosse il suo collo, ma due corpi estranei che entravano in contatto per la prima volta.
Davanti alla porta socchiusa della sala professori è rimasta così, a contare le pulsazioni che dalla vena le battevano sulle dita, per assicurarsi che, sì, quella fosse la sua mano, quello fosse il suo collo e quelli che scorrevano dentro di lei fossero i suoi globuli rossi, lanciati a tutta velocità nei vasi sanguigni, attraversando ogni organo, ogni muscolo che componeva la Manna, una Manna che in un qualsiasi istante si sarebbe potuta disintegrare ma che quel battito incessante teneva insieme. «Attenta secchioncella. Se entri lì dentro neanche io ti posso aiutare», le ha sussurrato Biagio passandole accanto e spazzando via dai suoi piedi della polvere inesistente, prima di allontanarsi senza guardare indietro. La mano della Manna ha poi lasciato il collo e si è poggiata sulla porta, spingendola lentamente.
Il brusio della sala professori si è placato non appena ha varcato la soglia. Due, quattro, dieci, cento occhi l’hanno squadrata e due, quattro, dieci, cento mani hanno smesso di fare quello che stavano facendo e hanno raccolto libri, fotocopie, fogli a protocollo, zaini e borse, e poi due, quattro, dieci, cento piedi si sono diretti verso l’uscita passandole accanto senza guardarla, per poter dire da lì a qualche ora “Quale studentessa? Se c’era non l’ho vista”, e così davanti alla Manna è rimasto solo Tarquinio Venturi. Stava seduto al tavolo: le dita affusolate tenevano un cracker e il monopolio del rumore nella stanza era lasciato alla sua attività di masticazione. Qualche briciola era caduta sulla giacca grigia ma ci voleva ben altro per scomporre il Venturi, l’incarnazione vivente dei precetti della scuola gentiliana, una figura capace di sopravvivere immutabile alle riforme ministeriali, sempre uguale a se stessa, con gli stessi folti capelli bianchi, la stessa montatura quadrata poggiata sul naso sottile, la stessa cravatta ancorata al colletto: nei corridoi di quella scuola aveva visto creste punk convivere con chiome cotonate, spalline imbottite soppiantare i jeans a zampa di elefante ma lui, il vero pilastro portante del liceo, non era mai cambiato. I ragazzi dell’ultimo anno amavano raccontare di quando era riuscito a bloccare un’occupazione con un solo sguardo: era bastato un cenno della sua mano per far scomparire dall’ingresso principale le barricate di banchi e far tornare al proprio posto ogni pezzo dell’arredo scolastico.
Il processo di masticazione si è interrotto e lui ha deglutito.
«Simona Mannaroli, finalmente. Temevo che non saresti più venuta».
La Manna non era mai stata una sua studentessa e non capiva come facesse il Venturi a sapere il suo nome.
«Hai quello che ti ho chiesto?»
«Scusi?»
«Mannaroli, non abbiamo molto tempo, e sicuramente oggi non ho molta pazienza».
Dall’angolo della stanza è sbucato il barboncino che si è messo ai piedi del professore.
«Mi dispiace ma non riesco proprio a capire».
Il Venturi per un attimo è scomparso sotto al tavolo per porgere al cagnolino l’ultimo cracker del pacchetto. «Il tuo aiuto mi è sempre stato prezioso e io non ho mai mancato di farti sentire la mia gratitudine. Sono disposto a rivedere i termini del nostro accordo, ma non adesso. Adesso ho bisogno della tua collaborazione. A te piace l’ordine, Simona Mannaroli?»
«Non ci ho mai riflettuto».
«Questo è il privilegio della tua età: dare per scontate quelle regole che ci garantiscono un vivere civile. Un certo livello di entropia è fisiologico, anche auspicabile: offre l’illusione che esistano infinite possibilità, infinite scelte. Ma un controllo ci deve essere, e quello è compito mio. Tutto qui è affar mio. Dal prezzo del caffè della macchinetta alle scritte oscene sulle porte dei bagni, fino agli errori di ortografia di quei tronfi infingardi che stanno chiusi come topi nell’aula di informatica, impegnati a sfornare copie di compiti come in una catena di montaggio, senza sapere che se loro continuano indisturbati a fare quello che fanno è solo perché io glielo concedo».
Così come gli occhi hanno bisogno di qualche minuto per abituarsi al buio, allo stesso modo la Manna iniziava a riconoscere in quella stanza qualcosa di familiare, a partire dal barboncino sotto al tavolo, passando per il Venturi seduto alla scrivania, fino al Big Bang di plastica rossa che penzolava da un mazzo di chiavi appese a un armadietto: sentiva di essere già stata li dentro e di aver già avuto quella conversazione.
«Adesso però c’è qualcosa che sfugge» continuava il professore. «È qualcosa di impercettibile, impalpabile, ma io conosco troppo bene questa scuola, le sue pareti, le sue piastrelle, le sue crepe, per non rendermi conto che qualcosa sta per accadere».
Il Venturi si è alzato e alla Manna è sembrato così imponente da sfiorare il soffitto.
«Dimmi chi stai cercando. Dimmi con chi devi parlare e potrai permetterti il lusso di rientrare in classe e fingere di non conoscermi».
La mano della Manna è tornata a cercare il suo collo ma quella non era più la sua mano e quello non era più il suo collo, e quella che pronunciava il nome di Manfredi non era più la sua voce, come non era la sua voce quella che l’aveva pronunciato qualche giorno prima, in quella stessa stanza, davanti al Venturi che, adesso come allora, le sorrideva, si toglieva gli occhiali e ne puliva le lenti con un panno in microfibra rosso, leggermente consumato, e ringraziava la Manna per il suo, sempre prezioso, aiuto.
Quando la Manna è uscita dalla sala professori aveva ancora la mano avvolta intorno al collo. Il Campa la aspettava fuori dalla porta.
«Non ho avuto scelta» le ha detto. «Neanche io» ha risposto lei. Lo ha guardato e si è chiesta da quanto tempo lo conosceva.
«E adesso? Cosa faremo?»
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