Ha pensato che gli occhi fossero la cosa più bella: verdi e grigi, lontanissimi l’uno dall’altro in mezzo ad una faccia seria e nervosa. Lo rivedeva come in sogno, tanto era stato veloce, neanche il tempo di chiedere cosa o perché che già il suo zainetto saliva le scale, saltando i gradini a due a due, e si confondeva fra la folla di altri zaini uguali, quasi un campionario aziendale in transumanza verso le aule deserte.
Ha chiuso gli occhi e si è concentrata: capelli castani, niente barba, occhiali rotondi. Non l’aveva mai visto prima, ma la scuola era immensa, specie per lei che non usciva quasi mai di classe o dal proprio banco. Era questo essere belli? Avvicinarsi a una ragazza senza paura e dirle: «Cercami a ricreazione: ti devo assolutamente parlare» sfiorandole appena la spalla. Era non sentire continuamente che il mondo ti stava osservando? Che prima o poi non ti avrebbe perdonato?
La campanella ha suonato, prima incerta, poi con vigore, poi con follia, senza ritegno, poi con stanchezza e alla fine con malinconia, gli ultimi drin come immaginava un vecchio quando ripensava alla giovinezza lontana. I corridoi si sono svuotati e lei è entrata quasi in ritardo, anomalia per tutta la 3° A. C’erano solo tre momenti importanti ogni mattina: la prima campanella, l’intervallo e l’ultima, la fine di tutto, la corsa verso un autobus o un motorino, corsa che a lei sembrava assurda: cosa c’era di così diverso là fuori?
Le ore sono passate con “la Manna” – la chiamavano così i suoi cari compagni di classe – a rigirarsi le parole in bocca, impervia a ogni interazione educativa che la prof. di turno abbozzava. Ogni volta quell’“assolutamente” cambiava colore: minaccioso, invitante, falso, disperato, ammiccante per tornare minaccioso e di nuovo invitante e via, ricominciare. Nessuno si era accorto di niente, nessuno la guardava strano o le tirava palline di gomma pane. “Ti devo assolutamente parlare”. Non “Ti voglio parlare” ha pensato, né “Dobbiamo parlare”. Era lui a dover parlare. Ma di cosa? Cosa mai c’era da dire a la Manna? Cos’aveva di speciale lei che era una secchiona ma non la prima della classe, non particolarmente popolare, né disperata? Aveva passato gli ultimi tre anni a farsi portare dalla corrente, attenta a non correre in avanti, una gregaria contenta di nascondersi nel gruppo. Osservava il proprio diario, l’antologia di latino, il piccolo astuccio e tutto era ordinario, non troppo colorato, non nero. Era convinta che se l’avessero messa in fila con altre 100 ragazze avrebbe potuto confondersi senza problemi. E ora tutto era perduto: qualcuno l’aveva vista, si era accorto di lei, l’aveva cercata, le si era avvicinato e le aveva parlato. Quanti sforzi inutili, ha pensato: non dire troppo né troppo poco, non asociale né troppo vicina a qualcuno. Ha controllato per l’ennesima volta l’orologio a parete che si avvicinava pericolosamente alle 10:00 e ha sentito qualcosa sprofondarle dentro, un vuoto che non sapeva di avere, enorme, di cui non si era mai accorta neanche quando si accarezzava la pancia da sola, chiusa a chiave in bagno, un pezzo nuovo che le era stato aggiunto a sua insaputa e di cui non sapeva che fare.
E ovviamente mentre si stava eccitando, la campanella ha suonato: per quanto la Manna si sforzava di trattenere ogni secondo, ha percepito chiaramente il chiudersi di un circuito elettrico nella stanzetta dei bidelli, un interruttore qualsiasi, simile a quelle lampade temporizzate delle scale di casa sua, poi l’elettrocalamita sovraccarica ha richiamato il batacchio montato su un piccolo braccio a molla che, obbediente, ha sferrato un colpo terribile alla campana, e poi un altro e un altro ancora, sempre più veloce, accelerando in corsa come un cane inferocito. E tutti si sono alzati all’unisono con l’eccezione delle prime file che ancora scrivevano chissà cosa. Poi anche loro, insieme alla professoressa, sono uscite e in classe non c’era più nessuno, solo lei. Ha chiuso gli occhi e si è chiesta cosa sarebbe successo se fosse rimasta così per tutti i 15 minuti d’aria giornalieri. Se non si fosse mossa da lì, ribellandosi alle aspettative, le speranze che quel suono scagliava addosso ad ognuno dei quasi 1000 studenti, ignorando i sogni, le paure, i piccoli tradimenti, i grandi, gli attacchi mortali che 15 minuti possono contenere. Là fuori tutto era possibile.
Ma la nuova appendice, il senso di mancanza che le era stato impiantato, non sentiva ragioni. La Manna ha riaperto gli occhi e si è accorta che dalle finestre dirimpetto, oltre il cortile, qualcuno la stava osservando e scuoteva la testa, tremendamente deluso. «Non oggi, cazzo, non oggi» ha sussurrato e subito si è morsa la lingua: se l’avesse raccontato al suo medico le avrebbe spiegato per l’ennesima volta che lo stress è un trigger delle allucinazioni e che non c’era motivo di arrabbiarsi, che la soluzione farmacologica non era una vergogna, che lavorando insieme avrebbero potuto trovare una routine che le permettesse di vivere una vita piena e soddisfacente. La Manna ha un conato di vomito e deve sforzarsi per ricacciarlo giù. Si è alzata senza guardare la finestra e per la prima volta da quando è in quella scuola, senza testimoni e senza aspettarsi alcuna gioia, alcuna ricompensa, finalmente ha accolto un suggerimento che tutti – la madre, lo psicologo, il fratello maggiore, suo padre – gli ripetevano come un mantra: esci, fai un giro, cosa può succederti? La Manna davvero non ne aveva idea.
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