Il ragno ha tessuto una tela con cento spirali, si è ritirato alla sua periferia e ha iniziato a guardare le mosche, le coccinelle, gli esseri piccoli del mondo che vi rimanevano incastrati, e i loro arti balbettanti che tremavano nello stento.
I suoi occhi hanno lampeggiato la luce lunare quando la grossa farfalla notturna, pelosa come una noce di cocco, planava al centro dell’opera mistificatoria e la distruggeva con una forza ignota. Il ragno non l’aveva ancora mai vista: colore del legno sul legno si era sempre nascosta.
Poi si era mossa goffamente; ma adesso faceva rumore.
La chiave luccicava nel pugno di Guido e Simona Mannaroli, detta Manna, la guardava attentamente.
La farfalla notturna che perdeva la sua vita fatta di polvere magica, si imbrattava di seta e saliva, soffocava nella bellezza della rivoluzione, era la preda dallo spirito più grande, era Simona Mannaroli, detta Manna, mentre si muoveva e avvicinava le sue labbra a quelle di Guido, incredula, risoluta.
La Manna teneva gli occhi spalancati e da quella distanza diventavano due portali verso frammenti di vita che tra i battiti delle ciglia di Guido si muovevano come le larve di zanzara si muovono nelle pozze riscaldate dal sole, e sentiva le labbra del ragazzino secche, per la vergogna, che cercavano di capire cosa fare di quelle che gli si erano posate sopra. La mano di Guido era sudata e perdeva la presa sulla chiave, ma lei la faceva passare lentamente nella propria – le sembrava il gesto più naturale del mondo – e poi nella tasca dei pantaloni.
Il ragno ha catturato anche gli altri due, Luca e Paolo, li ha catturati da tempo, e anche loro, come gli altri prigionieri, stavano a guardare la battaglia della farfalla notturna, imbavagliati nel bozzolo, in attesa di essere mangiati e poi digeriti: spacciati.
Il silenzio di quell’angolo del bar, ormai già deserto a parte per quelle quattro prede, veniva rotto soltanto dal movimento delle ali della falena mentre si dibatteva per distruggere l’opera del ragno e lei, la Manna, si ingrandiva a dismisura per una volontà sconosciuta.
Ora che la chiave era nella sua tasca, il calore diminuiva e la spinta si sgretolava.
La Manna si è staccata dal volto di Guido, e per un attimo ha pensato che una volta fuoriuscita da quell’intervallo assurdo avrebbe potuto baciarlo ancora, quindi sono così morbide, ha pensato, ed è sempre così caldo?, ha anche pensato, si è resa conto che anche le sue mani erano sudate. Si è resa conto di aver preso la chiave, e di averla messa in tasca, di aver lasciato Guido immobile, con la bocca semichiusa. Luca e Paolo sempre a qualche metro di distanza appoggiati con la schiena alla parete. Si è resa conto che Guido fosse perfino bello, per la prima volta ha pensato che avrebbe voluto rivederlo fuori da scuola, potrei dirgli di andare alla gelateria accanto al prato da cui si vede tutta la città, ha pensato, ma immediatamente ha pensato anche alla possibilità che lui si sarebbe offerto di pagarle il gelato, e l’avrebbe fatto con le diecimila lire che lei gli aveva appena dato, allora le è montata una strana rabbia. Per un attimo ha pensato a tutto questo, la Manna, e poi ha domandato a Guido se quella fosse la chiave della stanza dell’ascensore.
Le aveva parlato Biagio della stanza dell’ascensore, le aveva detto che in quella scuola c’era soltanto una stanza in cui non era mai entrato, e in cui per di più non poteva entrare, perché non si sapeva chi avesse la chiave, la stanza dell’ascensore, la chiamava lui, se mai vorrai scoprire i segreti di questo posto pieno di brufoli e lacrime, prendi l’ascensore e vai al piano 1, che non è il primo, perché vedrai che nell’ascensore il primo piano corrisponde al numero 2, gli aveva detto Biagio, quindi entri nell’ascensore e vai al piano 1 e lì c’è la porta, e buona fortuna carina, così gli aveva detto Biagio e ora lei pensava di avere trovato la chiave della porta dell’ascensore.
Guido, devo sapere se la chiave è quella della porta dietro l’ascensore, gli ha detto, e Guido non ha risposto: anche Guido era imbavagliato nella tela del ragno, zitto, a labbra semiaperte, spacciato.
La Manna è uscita dal bar, ha imboccato il corridoio verso il cortile, continuando a toccare la chiave nella propria tasca, a ripercorrerne con il polpastrello i denti che somigliavano allo skyline di una grande città statunitense. A metà del corridoio, in una nicchia scura, si trovava l’ascensore. La Manna ha premuto sul tasto 0, la porta metallica si è aperta e, all’interno, dopo aver dato una veloce occhiata agli altri pulsanti, la Manna ha premuto velocemente l’1. Le porte a quel punto si sono richiuse e l’ascensore ha fatto un piccolo salto.
Il ragno osservava diffidente la falena che ogni tanto dava un colpo con le ali, che roteava le zampe, e che rallentava i movimenti ampi e violenti di poco prima. Mancava poco che gli rovinasse il lavoro di una vita e, probabilmente, che lo riducesse anche alla fame e di conseguenza alla morte.
Arrivata a quel celebre piano 1, di fronte alla porta bianca, la Manna percepiva per la prima volta dal suono della campanella di inizio della ricreazione la propria stanchezza, una stanchezza che non si limitava a quel giorno particolare, ma che veniva portata con sé da un tempo lunghissimo, dall’accumulo di strappi ignorati, lacerazioni non medicate, sottovalutate, evitate. Si prendeva il tempo, lì, di fronte alla porta bianca della stanza dell’ascensore, per ricordare la prima volta in cui sua madre aveva smesso di apparecchiare anche per suo fratello e suo padre aveva preso una sigaretta da un cassetto, per la prima volta l’aveva accesa in casa e nessuno di loro era riuscito a mangiare nulla, quella sera.
La farfalla notturna si fermava, dopo il primo momento di caos; cercava di guardarsi intorno, le mancava poco per far crollare tutta la struttura a spirale e liberare tutte le altre prede. Il ragno ha capito che quello era il momento, se mai avesse voluto mangiarsi la preda più grossa, di muoversi dalla periferia della sua tela verso di lei.
Un din ha risuonato nell’ingresso del piano 1 dove la Manna fissava, immobile, con la chiave già in mano, la porta bianca. Una voce parlava, probabilmente a qualcuno all’altro capo di un cellulare, ancora da dietro la porta chiusa dell’ascensore, diceva che sarebbe arrivato con il cd-rom nel giro di pochi secondi, non mi devi pressare, sto per entrare, è tutto a posto, mi ha visto solo lei, così la Manna ha sentito dire alla voce dietro l’ascensore. La porta si è aperta e la Manna si è girata su di sé. Ha visto due occhi grigio-verdi dietro un paio di occhiali rotondi, a loro volta stupiti di trovarsela di fronte. Ha visto gli occhi grigio-verdi che si spostavano lentamente sul suo corpo fino alla chiave che aveva in mano, li ha visti allargarsi ancora di più, e poi non ha visto più niente. Ha sentito più caldo di poco prima, quando le sue labbra stavano attaccate a quelle di Guido, ha sentito la montatura tonda schiacciarle la fronte, ha sentito che le si seccavano le labbra, che lentamente la chiave le scivolava via dai polpastrelli, l’ha sentita sparire dalla propria mano, ma non ha sentito nessun suono di metallo contro il pavimento. Se possibile le labbra di Manfredi erano ancora più morbide di quelle di Guido e sapevano soltanto di pioggia e non di patatine e aglio come poco prima.
Poi non le ha più sentite e ha aperto gli occhi e Manfredi la stava scavalcando, aveva la chiave in mano, la girava nella toppa della porta e dandole le spalle le diceva con un tono piatto che era stato bello, ma che ora doveva andare e che lei avrebbe dovuto aspettare, che non era ancora il suo momento, ma te l’ho detto, Manna, ricordati che dobbiamo parlare, proprio così le ha detto Manfredi e si è chiuso la porta alle spalle, senza neanche guardarla. La Manna ha sentito la chiave girare nella toppa dall’interno e chiuderla e lentamente si è voltata, ha premuto il tasto 1 cerchiato di rosso, e non appena si è aperta la porta dell’ascensore è entrata. Le gambe le tremavano. Si è appoggiata senza volerlo alla pulsantiera e l’ascensore ha fatto un balzo e ha iniziato a salire. Simona Mannaroli, detta Manna, saliva ancora, invece che scendere. Si è voltata e ha notato un “3” che prima non aveva visto, eppure era sicura di aver fatto attenzione a quella faccenda dei piani. Così ha riflettuto, domandandosi se in quella scuola ci fosse un terzo piano, o anzi un secondo piano, e le venne in mente la biblioteca. L’ascensore arrivava anche in biblioteca, quindi. La porta si sarebbe aperta e lei pensava che tutto sommato ogni cosa sarebbe andata come doveva. Allora entriamo in biblioteca, magari i libri contengono ancora una volta tutte le risposte, oltre che tutte le domande, ha pensato ed è uscita dall’ascensore.
Così la farfalla notturna, stremata, non ha distrutto la tela, l’ha soltanto scombinata, e adesso il ragno le ha fatto capire che non basta il caos, ma ci vuole anche un piano.
Rispondi