La Manna camminava con accanto il Campa. Pensava a Manfredi, a tutto il casino fatto per trovarlo e all’ennesimo fallimento di cui avrebbe discusso fino alla nausea con il suo psicologo che certamente avrebbe trovato la crepa nel dolore che adesso le prendeva il basso ventre e l’avrebbe disinnescato, rendendolo ordinario e banale.
«Dove stiamo andando?» ha chiesto il Campa.
«In classe Campa, dove vuoi che andiamo».
«Quindi: tutto qua. La Manna esce di classe e alla fine ci ritorna?»
«Tutto qua».
La Manna si è girata per cercare lo sguardo del Campa, ma non ha trovato nessuno. Era sola e camminava lenta nei corridoi che si stavano svuotando: a piccoli gruppi tutti tornavano in classe, i fumatori, le fighe, i palestrati, i secchioni, i nerd. Come ruscelli di montagna scorrevano verso un lago piatto e silenzioso. La campanella non era ancora suonata, non ce n’era bisogno. La Manna ha pensato al suo banco, al suo zaino, all’astuccio e tutto le è sembrato così inutile. Non avrebbe imparato niente oggi, era sicura. Non oggi, non domani, non nei mille giorni seguenti. Era stata una sconfitta, ecco: aveva provato e aveva perso.
Ha sceso le scale, oltrepassato le macchinette, e si è ritrovata nel suo corridoio, quello della III A. Tutto era uguale a come se lo ricordava, solo un po’ meno luminoso. Non aveva altre aspettative se non tornare in classe, sedersi al suo banco e passare i prossimi due anni a dimenticare questa mattinata fino a diplomarsi e sparire da scuola, perdere tutti di vista, essere qualcun’altra.
Camminava tenendo lo sguardo a terra, senza cercare più nessuno e per questo non ha visto Manfredi appoggiato al termosifone in ghisa, ritinteggiato così tante volte da essere ormai più spesso dell’originale di un paio di centimetri.
«Ti devo chiedere scusa Simo» ha detto e le parole arrivavano alla Manna come coltellate di piacere. «Immagino sia stato un pessimo quarto d’ora».
La Manna non ha detto nulla.
«Venturi sa essere antipatico, se vuole» la mano destra di Manfredi le ha sfiorato i capelli e li ha sistemati dietro l’orecchio sinistro di Simona, «ma tu non sei da meno: due volte hai fatto la spia, due».
«È per questo che mi volevi parlare? Per insultarmi?» ha sussurrato la Manna alzando lo sguardo e cercando di decidere di che colore avesse gli occhi Manfredi, senza successo.
«Davvero non sai perchè volevo parlarti?»
Gli occhi della Manna hanno cominciato a lacrimare come se d’improvviso qualcuno avesse avviato l’irrigazione a goccia di un giardino: senza fretta, senza emozione, lacrima a lacrima, gocce temporizzate ed equidistanti. Ha scosso la testa, non sapeva nulla.
«Ecco, queste sono le tue chiavi. Puoi tenerle o ridarle a Guido, come preferisci». Manfredi le ha preso una mano, aprendogli il palmo con infinita delicatezza, e le ha appoggiate esattamente al centro del triangolo formato dalle linee della vita, del destino e del cuore. In fondo al corridoio è apparso Guido e Manfredi lo ha guardato sorridendo. Guido ha annuito e si è infilato le mani in tasca.
«Che sta succedendo Manfredi? State giocando con me? Se è bullismo, vado diretta dal…» ma la Manna non ha finito la frase perché gli occhi verdi e grigi si sono avvicinati talmente che non riusciva più a distinguerli. Poi ha sentito la lingua uscirle dalla bocca e cercare il suo riflesso in un’altra che l’aspettava. Era strano baciare qualcuno e piangere allo stesso tempo, ha pensato la Manna. Quando hanno riaperto gli occhi, tutta la III A era assiepata alla porta senza neanche provare a dissimulare la sorpresa e l’interesse. La Manna è arrossita in un lampo, dall’interno verso le guance, il collo, la fronte, ogni centimetro di pelle visibile. Manfredi l’ha tirata via e insieme, camminando mano nella mano, lenti e silenziosi, hanno iniziato a risalire il fiume di ragazzi che tornavano da chissà dove verso le loro stanze numerate e divise in ordine alfabetico.
«Non aver paura» le ha sussurrato Manfredi all’orecchio. «Vedrai». La Manna stringeva la mano e ad ogni passo pensava che camminando così avrebbe potuto arrivare ovunque. Hanno raggiunto Guido che senza dire nulla si è messo a loro fianco: un terzetto disposto in fila orizzontale che occupava quasi tutta la larghezza delle scale. La Manna lo guardava sorpresa: si sarebbe aspettata rabbia o almeno dispiacere. Invece Guido sorrideva e le scrutava gli occhi. «Queste sono le chiavi che ti ho rubato» ha detto Simona e gli ha passato il mazzo. Guido l’ha preso, sistemato in tasca e, con lo stesso movimento, come la cosa più naturale del mondo, ha preso la mano della Manna. Camminava al centro, stretta da tutte le parti e finalmente ha sentito di essere insieme a qualcuno.
«Il Campa è qui?» le ha chiesto Guido.
«Come fai a sapere del Campa?»
Guido e Manfredi si guardavano sorridendo. Sul pianerottolo, la Manna si è fermata: non avrebbe fatto un altro passo prima di capire cosa le stavano facendo, proprio lei che aveva letto Simone de Beauvoir, Judith Butler. Guido le ha sussurrato in un orecchio: «hai ragione Simo, ma ti devi fidare. Noi siamo dalla tua parte» e la Manna ha voluto moltissimo che quella voce calda e rassicurante non smettesse mai di parlare. Le scale deserte, sia in salita, sia in discesa, la campanella stava per suonare, e tutti ormai avevano abbandonato anche per oggi ogni velleità di rivolta: restavano solo loro tre, mano nella mano.
«Dobbiamo sbrigarci» ha detto Manfredi «o rischiamo di arrivare tardi e sarebbe davvero un peccato».
«Tardi per cosa?»
«Simona Mannaroli, sei la ragazza più testarda che abbiamo mai conosciuto» ha detto Guido mentre la trascinavano giù, verso la porta e il cortile. «Non hai una sensazione familiare?» ha chiesto Manfredi «eppure ci siamo impegnati tanto per fare tutto come lo volevi tu».
La Manna ha avuto un capogiro: lei non voleva nulla di tutto questo, si diceva.
«Ancora non ti ricordi? Eppure io e Guido abbiamo passato mesi a rileggere ogni parola, per non sbagliare niente».
«Il tuo tema mi ha tenuto sveglio per settimane Simo» ha detto Guido «è così che io e lui ci siamo innamorati di te» e si è avvicinato fino a poter sentire il respiro accelerato di Simona sulla pelle sotto le narici.
«I temi non li leggiamo mai, non si possono copiare o passare, ma il tuo bruciava» e le labbra di Guido hanno ceduto, finendo con un bacio la frase al posto suo.
«Tutti i tuoi temi bruciano, io lo so, li ho letti. Ma quello era diverso».
La Manna d’istinto ha stretto la mano di Manfredi che in cambio le ha baciato una spalla con uno schiocco dolce e rapido. Poi nessuno ha detto più nulla e sono usciti nel sole ritrovato di giugno che aveva quasi finito di sciogliere la grandinata. Guido, Manfredi e la Manna sedevano sulla panchina più lontana, proprio accanto al cancello d’uscita.
«Nel tuo tema tutto sembrava brillare di più: le finestre, la porta, ma ci sono alcune cose che, per quanto abbiamo provato, non si potevano replicare».
La Manna ha avuto un brivido, i pori delle braccia e delle gambe si sono richiusi come boccaporti pronti per l’immersione. Ha visto il Campa che la guardava da una finestra al secondo piano e scuoteva la testa. Ha immaginato Biagio e il terrore è aumentato, non aveva mai sentito una paura così. Credeva di sognare: che tutto fosse una sua elaborata, contorta allucinazione e per la prima volta non le sembrava l’opzione peggiore. Pensava ai suoi compagni di classe, quei pochi con cui parlava, tutti gli altri, figure senza storia che riempivano lo spazio. Voleva moltissimo non aver capito a quale tema si riferivano.
O che per le parole esistesse un interruttore salvavita da poter spegnere nelle emergenze e tutte quelle righe scritte di getto, senza pensare alla destinazione finale, alle conseguenze, non esistessero, non fossero mai esistite. Ha pensato che non fosse possibile, che sicuramente era tutto un enorme fraintendimento. Che conosceva Guido, era un bravo ragazzo tutto sommato.
«Per trovare i soldi ho dovuto perfino mettermi a smerciare un po’ di fumo, io che non saprei neanche accendere una sigaretta» ha detto Manfredi ridendo.
La Manna ha pensato che non aveva colpa, era solo un tema, non aveva neanche preso un voto particolarmente brillante. Nessuno ne era rimasto colpito in classe. La schiena ha iniziato a sudarle contro le stecche della panchina. Com’era possibile che quei due, davvero, avessero immaginato di.
Le parole erano pericolose, pensava la Manna, molto più pericolose di quanto avesse immaginato. Le parole uccidevano. Le parole salvavano. Le parole condannavano. Le parole univano e dividevano. Le parole erano il mondo che abitavamo tutti, da sempre e per sempre.
«Hai capito adesso?» ha chiesto Manfredi mentre le accarezzava un ginocchio.
«Abbiamo fatto tutto per te» ha detto Guido, baciandole la mano come un damerino ottocentesco «tutto come volevi».
La Manna ha pensato che i desideri non hanno nulla a che fare con la realtà. Che si può desiderare qualcosa e non desiderare che accada. Che la rabbia che c’era in quel tema non era più la sua, che l’aveva scritta proprio per non doverla vivere. Ha avuto improvvisamente freddo e ha controllato che ore fossero: mancava meno di un minuto alla campanella. Aveva ragione il Campa: credeva di vivere ed era vissuta, non c’era nulla che poteva fare. Tutto era già stato scritto prima di lei e per lei. Aveva eseguito una partitura che l’aveva portata esattamente lì, su quella panchina, insieme ai suoi primi due ragazzi con i quali avrebbe magari fatto l’amore, magari tutti insieme, perchè no. Cosa c’era di male? La Manna non avrebbe mai potuto fare più male di quello che aveva già fatto senza saperlo, solo con delle parole scritte senza pensarci, con rabbia, con odio disperato, e poi lette, prima distrattamente, poi con attenzione, poi con venerazione morbosa, finchè quelle parole non erano diventate dure, taglienti, avvicinandosi sempre di più al nostro mondo, fatto di corpi, di edifici, di gente che non c’entrava nulla, innegabilmente innocente, se non del tutto, almeno in relazione alle loro vite.
E tutto senza di lei. Lei ha continuato ad alzarsi, andare a scuola, tornare a casa, gestire le sue allucinazioni come poteva, senza vedere il cancro che ha messo al mondo, come gonfiava, nero, duro, pieno di odio che invece di spegnersi si moltiplicava. La Manna ha sentito il peso inevitabile delle cose posarsi su di lei, su Guido e su Manfredi che la guardavano con occhi dolci e in trepida attesa.
«Hai capito adesso?» ha chiesto Guido.
La Manna ha annuito due volte e, esattamente mentre il mento disegnava il secondo piccolo arco verso il basso, trasmettendo il suo moto ai capelli, alle orecchie, al naso e in definitiva a tutto il volto di Simona Mannaroli, alle lacrime che non avevano smesso di scendere, senza fretta, dagli occhi semichiusi, proprio mentre pensava che la sua vita da quel momento in poi non sarebbe stata mai più la stessa, che doveva accettare il mondo com’era, che nell’eterna catena delle cause e delle conseguenze questa storia sarebbe stata presto dimenticata, proprio allora dalla scuola, dalle profondità recondite della scuola, dalle fondamenta della scuola, e poi su lungo le calate in alluminio, attraverso le travi di cemento armato, fondendo l’armatura in ferro che le teneva insieme, dalle finestre del primo piano e dalle porte chiuse, è uscito un grido sordo e lontano e – subito dopo – un vento cattivo, carico di rabbia, e la scuola è caduta su se stessa come un mazzo di carte.
Simona Mannaroli guardava la scena, ascoltava le urla dei compagni sopravvissuti, le fiamme che salivano inglobando i faldoni e i libri, i quaderni e le circolari, bruciando quei pochi infissi in legno rimasti in piedi e rendendo la fuga impossibile a chi ancora aveva la forza di trascinarsi. E, abbracciando i suoi due amori, la Manna ha pensato che, per quanto sbagliato e assurdo, nessuno aveva mai fatto qualcosa del genere per lei. Senza volere, quindi, ha sorriso.
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