di M. R.
Ho iniziato a studiare latino in prima liceo, e la cosa mi esaltava tantissimo. Con i miei compagni passavamo le pause a scrivere alla lavagna frasi in quella nuova lingua. Nulla di elaborato ovviamente, il nostro lessico non era ricco e la sintassi stentata. Si trattava più che altro di offese a qualche compagno, le stesse gridate anche a voce, che però in quella lingua ci sembravano più incisive, efficaci, solenni.
Poi arrivarono le versioni, e a seguire latin.it, che allora si chiamava SplashLatino, e la forbice si allargò subito: c’era chi spendeva ore a tradurre e chi invece risolveva tutto in due minuti con un semplice copia-incolla. Io appartenevo al primo gruppo, un po’ per paura di tradirmi alle verifiche, un po’ per il desiderio di farmi valere nell’impresa. Il dubbio che fossi io quello dalla parte sbagliata ogni tanto veniva, ma quasi mai era così forte da spingermi su internet senza averci prima provato almeno un po’.
In seconda iniziammo a studiare la storia romana, e per ogni impresa delle legioni godevamo come matti, come tifosi allo stadio, dimenticando di essere una civiltà sorta da massacri e distruzioni. Poi arrivò la terza, e la letteratura: Seneca, Cesare, Cicerone, Catullo.
Cosa è successo dopo? Anche all’università ho ritrovato il latino e l’impero romano, ma quei due esami non hanno aggiunto molto rispetto all’imprinting del liceo, restavano gli stessi pensieri e comportamenti. Quando poi ho cominciato a fare ripetizioni e a tradurre di continuo, la percezione si era ormai cristallizzata. La frequentazione quotidiana delle versioni me le aveva rese ordinarie, senza più magie e segreti.
Guardare Il primo re è stato quindi uno shock, tanto che finalmente vedo l’argomento sotto tutt’altra luce: capisco la potenza che il (proto)latino poteva avere, una lingua adatta a celebrare il sacro e al contempo esprimere i bassi istinti, unendo le due cose con riti sacrificali. Vedo la reale sostanza di un mondo finora troppo mitizzato; al primo osso che si spezza sullo schermo capisco molte più cose che dopo l’esame di Storia Romana. Capisco che tutto il senso di orgoglio con cui spesso guardiamo Roma e il suo impero (come se la loro gloria si riflettesse su di noi) dovrebbe assumere lo stesso retrogusto acido con cui tra duemila anni guarderanno l’imperialismo degli Stati Uniti nel Novecento: il riconoscimento che la grandezza di un popolo poggia quasi sempre su una base di violenza.
Oggi so che il potere è una brutta bestia, ma finora non abbiamo trovato un modo per fare senza, e sono grato a Matteo Rovere per aver svelato, ancora una volta, “di che lacrime grondi e di che sangue”.
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