Il film non parla di Carol, figlia di un importante avvocato, che s’innamora – ricambiata – di un giovane collega del padre, un entusiasta novellino che si farà le ossa nel celebre “caso Abel”; i due si metteranno insieme all’insaputa del padre e si faranno piedino durante le cene a cui lui sarà invitato per lavoro e con la scusa degli arretrati si tratterrà ancora un po’. Ma dovranno infine lasciarsi, tra strepiti e schiamazzi, in seguito alla cupezza dell’avvocatura che avvolgerà il cuore del giovane.
Il film non parla del crescente panico instillato nel piccolo Roger, fratello di Carol, appassionato di norme e procedure di salvataggio in caso di catastrofi. Roger inizierà a sognare un cataclisma ogni notte di lì agl’anni a venire, passerà dalle esplosioni atomiche ai terremoti, dai tornado alle pandemie, dalle valanghe ai lahar, finendo per amarne la perentorietà e l’assoluta determinazione, cosa che non rintraccerà mai negli uomini.
Il film non parla della sorte di un cappotto comprato a New York e rubato un giorno a Berlino Est da un ragazzo biondo e la sua banda, lo stesso ragazzo biondo che dopo aver fatto il teppista per dieci anni avrebbe abbracciato il pacifismo e dipinto, nottetempo, una serie di motivi floreali sul muro che divideva la sua città.
Il film non parla neppure della mancanza di quale che sia sentimento nella spia Abel in relazione al suo periodo nel carcere americano. Abel, o dovremmo forse dire Fisher, una volta rientrato in Unione Sovietica divenne insegnante alla scuola ufficiali del KGB e picchiò regolarmente la moglie con un grosso mestolo. Gli unici suoi ricordi – non per forza piacevoli – sul periodo a Brooklyn riguardavano una fugace amicizia con Burton Silverman, riconosciuto pittore americano dallo stile tanto puntiglioso quanto prosaico, cui raccontava ora di essere stato un contabile a Boston, ora un taglialegna nel Canada occidentale.
E che dire di Pryor, lo studente arrestato dalla Stasi perché si trovava nel posto sbagliato al momento sbagliato: il film non ne parla. Non parla del tedesco perfetto che avrebbe imparato in quattro mesi e mezzo di snervanti interrogatori quotidiani, rendendolo segretamente grato di quell’esperienza.
Il film non parla infine della pervicacia con cui Donovan si attaccò alla vita quel 19 gennaio del 1970, quando sentì uno schianto dentro al petto e i colori del mondo si scomposero nei rispettivi primari: immaginate una lingua sul ghiaccio.
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