di Mariachiara Ingrassia
«Ma lo sai che ieri sera ho visto nientepopodimeno che Claudia Cardinale. Alla Focacceria di San Francesco. Te lo giuro. Era al tavolo con altra gente, all’ultimo piano, quello dei ricchi».
«Mamma mia, quant’era bella quando faceva Angelica? Che viso! Ora sarà vecchissima».
«In decadenza, come tutto».
Alla nostra destra, aldilà della strada, il mare, le ville abusive degli anni ottanta, la torre abbandonata: fa male il cuore.
«Allora, buon viaggio, Chiara. Basta un messaggio appena arrivi, ok?», mi dice mio padre mentre mi abbraccia, nella terrazza dell’aeroporto Falcone-Borsellino. Un déjà-vu di mille altre partenze.
«Sì, vi scrivo. Tu guida piano!».
Già ai controlli mi accorgo di essere l’unico passeggero senza una busta contenente del cibo, souvenir del Sud. Come potrò sopravvivere su al Nord, a Firenze, senza le panelle fritte nell’olio rifritto? penso. Che genitori sconsiderati ho? Desasosiego.
Raggiungo il gate con questa agitazione addosso. Manca ancora un’ora all’imbarco, ma sono già tutti in fila, temono di perdere il posto numerato che gli è stato assegnato in aereo.
E mentre mi interrogo sulle possibilità di sopravvivenza al freddo nordico di una primavera fredda e senza mare, la mia disperazione famelica viene di colpo interrotta dal suono di un piano.
***
I pianoforti aeroportuali sono i buchi neri degli affanni umani. Quando emettono suoni, risucchiano ogni preoccupazione, paura di volare, litigio di coppia, ansia routinaria, e con esse lo scorrere del tempo. Via, tutto nel buio del loro campo gravitazionale. I pianoforti aeroportuali sono i numeri periodici di un’immobilità senza tempo che ripete se stessa, superba e indifferente alla miseria umana racchiusa nei bagagli a mano a norma dei voli low cost. E il mondo è un posto più bello. La Palestina sventola la sua grande bandiera, i risultati elettorali in Italia erano un pesce d’aprile, Trump non è mai esistito, e si organizzano tour-traghetto per migranti. Ché migrare è un verbo bellissimo.
Ecco, tutto l’aeroporto diventa un’immensa sala da ballo. Scatta il flash mob. Luchino dirige tutti noi, attori gattopardiani improvvisati. L’uomo di fronte a me ha un’aria tancrediana di fine ottocento, un Alain Delon dei poveri. Una nota, due, un valzer. Io, come il Principe di Salina, mi allontano a dialogare con la morte. I pianoforti aeroportuali sono calamite a coda dell’angoscia, anche quando li suona un turista cinese che ride e basta. Un bambino, con un’arancina in mano, la bocca colma d’olio e ragù, gli si avvicina e lo fissa senza ridere. L’arancina cade sul piano, sui bianchi e sui neri. Il bambino piange un pianto stonato, interrompendo la scena. Visconti grida «stop!» e le comparse tornano in fila per l’imbarco. Manichini imbalsamati, come dimentichi del ballo, come se il pianoforte non avesse mai suonato, parlano di cibo e dichiarano buoni propositi di dimagrimento, una volta al nord. Parlano della nostalgia del Sud, senza averlo ancora lasciato: una nostalgia preventiva, certa a venire. Parlano al telefono con le madri.
Mà, tutt’apposto, sono in fila, sì, ho mangiato. Sì, la setteveli l’ho presa, non ti preoccupare, non morirò di fame lassù.
Parlano delle vacanze finite come si potrebbe parlare dell’apocalisse.
E domani a lavoro. Eh. Era troppo bello per durare. E pazienza.
Irredimibili. Vogliono che tutto cambi, perché tutto rimanga com’è.
***
Sono le 23.30 e l’avevo dimenticato:
«Figlia sana e salva a Firenze rivede il Gattopardo»
«Com’era bella Angelica, com’era bella».
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