di Paolo Parente
Dopo il film non siamo più gli stessi.
Lo stiamo pensando entrambi, lo so, mentre lei mette su il solito caffè di quando torniamo tardi da casa di Lucia e Mario. Come non dovessimo, di lì a poco, dormire. E prima del film, com’eravamo? Forse questo me lo sto chiedendo da solo.
Lei passeggia su e giù per la fila di piastrelle sbeccate sulle quali si tiene in equilibrio tutte le volte che il profumo dell’arabica in salita non ripaga la noia di doverla aspettare. So già anche precisamente con che movenze si porterà alla credenza, quali gesti accompagneranno le tazzine sul piatto, il dolcissimo, pigro suo mescolare.
Così mi viene in mente di averla vista, ormai un milione di anni fa, scendere da un motorino che non era il mio, strappare i capelli da un casco poi infilato fino al gomito di uno che già odiavo. Non ricordo più il suo nome. Non ricordo se ho mai saputo come si chiamasse.
Seduto sulla sedia di vimini della cucina, mentre la osservo ripetere i noti rituali, la rivedo giovanissima scoperta capace di stravolgere l’universo che abitavo. C’è stato, nella mia vita, un prima e un dopo di lei, come ci sono nella storia del mondo tanti prima e dopo rispetto a fatti assolutamente inevitabili. Inevitabile. Questa parola mi ronza in testa da quando abbiamo spento il televisore collegato al computer su cui andava in streaming il film.
Il bosco 1 Mario lo ha scelto per ridere. Un horror che mette paura soltanto a chi crede di dover difendere la dignità del genere. La falsità dei dialoghi, i cliché della trama, la piattezza dei personaggi. Allora perché io e lei ci contorcevamo reciprocamente le mani?
“Bisogna trovare il modo di andare via di qui”, dice a un certo punto Cindy dalle Alpi buie in cui il regista l’ha messa a vivere per sempre.
“Dove vuoi andare? A finire in un altro bosco, magari in mezzo ad altri mostri peggiori di questi?”, le chiede Toni.
Lei mi vorrebbe sposare. Dopo sette anni di convivenza sembra una naturale evoluzione. Io vorrei che spegnesse la fiamma sotto la moka e la smettesse di portare a ebollizione questo caffè che non ci va davvero di bere. Nei suoi occhi c’è la stessa, terrificante domanda: siamo noi quei mostri di cui, a un certo punto di ogni vita, conviene accontentarsi? Questa nostra casa è il bosco che tra gli altri boschi è il minore dei mali?
«Il film non mi è piaciuto», dice.
«Difficile farselo piacere».
«Sì ma non mi è piaciuto proprio».
«Cos’è che non ti piace proprio?»
«Ma in generale. Poi quando Cindy dice, mentre il mostro la attacca: “Non finirà mai tutto questo”. Che scema, no? È chiaro che deve finire».
Sorrido.
«È chiaro per te che non devi difenderti da uno zombie. Comunque ti sei immedesimata troppo. Pensa che sono soltanto le brutte parole che le hanno messo in bocca».
«Già, la sceneggiatura… Terribile».
Detto questo lei, di sua iniziativa, strozza in gola un gorgoglio liberatorio al caffè. La fiamma che accerchiava, che braccava il fornello si spegne e si riaccende sotto forma di anomalia nei suoi occhi.
«Mi viene sempre il mal di pancia quando lo prendiamo a quest’ora», dice e ridiamo.
«Vuoi andare a letto?», le chiedo e ridiamo.
«Ma no, non mi va. Ti va se vediamo il seguito?»
«Il seguito di cosa?»
«De Il bosco 1»
«Ma non hai sentito Mario? Non l’hanno fatto».
«E allora 1 di cosa?»
«1 di 1 e basta».
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