di Mario Greco (essi vivono)
Il mio sogno, finalmente, si stava per avverare. Era soltanto una particina. «Ma è così che si inizia» mi dicevo. «Un passettino alla volta.»
Dovevo interpretare il ruolo di un barbone, una scena lunga si e no un paio di minuti. C’erano dei ragazzini che volevano darmi fuoco e io dovevo rincorrerli per qualche metro e gridare: «Lasciatemi in pace! Andate via! Andate via!» Tutto qui. Per calarmi meglio nel personaggio presi ad andare quasi ogni giorno alla stazione a vedere come vivevano i veri barboni. Poi, non contento, una notte decisi di dormire proprio lì, in mezzo a loro. Avete mai sentito parlare del metodo Stanislavskij e del metodo Strasberg? Beh, io ero intenzionato a sperimentare entrambi.
Era settembre, una sera un po’ ventilata, ma ancora abbastanza calda. Mi sdraiai su una panchina. Nemmeno ci provai a chiudere occhio. I veri barboni mi guardavano con sospetto. Avevo invaso il loro territorio e avevo paura che potessero farmi del male e cacciarmi via.
Mentre stavo lì, pensavo a Bob De Niro e a tutti i dolci e le schifezze che aveva dovuto ingurgitare per mettere su più di trenta chili in Toro scatenato. E ai denti che si era lasciato limare per Cape Fear. Bob De Niro mi stava dando una mano quella notte, non posso negarlo. Per prepararmi meglio, non mi ero lavato da una settimana e avevo indossato degli abiti sporchi e consunti. Fu verso l’alba che vidi quella grassona. Andava avanti e indietro lungo i binari. Teneva il capo chino e ogni tanto si fermava e fissava le rotaie. Non so perché, ma ebbi la netta sensazione che si volesse suicidare. La tenni d’occhio per un bel po’ e poi mi feci avanti.
«Non farlo, non farlo» le dissi. «Non ne vale la pena. Chi ti assicura che dopo la morte non ci sia un’altra vita, e che quella vita non sia peggiore di questa? Può darsi che il sonno eterno sia solo un’illusione.»
Non so come mi venne fuori questa stupida frase, ma la lanciai lì. Pensai che avrebbe fatto effetto.
«Ma che dici? Chi sei? Che vuoi?» fece la grassona.
La presi per mano e cercai di farla allontanare da quei binari.
«Perché non mi lasci in pace?» disse lei.
Mi seguì recalcitrante lungo il marciapiede, impuntandosi ogni tanto come fanno i cani al guinzaglio. Arrivò un treno e la lunga veste che indossava si sollevò, lasciando per un attimo scoperte le sue enormi cosce bianche.
«Ma la vuoi smettere di tirarmi, brutto nanerottolo!» strillò.
Nessuno mi aveva mai chiamato così. Non sono un gigante, ma nemmeno un nano. Era lei che era altissima, altissima e grossa come una balena.
Stava spuntando il sole e il tetto di una carrozza dismessa luccicava sotto i suoi raggi. Non tirava più vento, l’aria era fresca e io, mentre cercavo di trascinare via quella donna, pensai al freddo, alle notti di gelo e agli scatoloni di cartone in cui tra un paio di mesi avrebbero cercato di rifugiarsi i veri barboni.
«Sediamoci un po’. Devi essere stanca. Da dove vieni? Hai fame?»
Con un sospiro, la grassona si lasciò cadere su una panchina. Respirava a fatica e non aveva la voglia e la forza di rispondere a nessuna domanda.
«Un panino riesco a rimediartelo» le dissi. «E forse anche una birra.»
Lei non disse niente. Chiuse soltanto gli occhi per un attimo.
«Perché volevi farlo?» le chiesi.
«Tu non ci hai mai pensato? disse lei. «Non ti ha mai preso la tentazione di lasciarti andare? Tutti i giorni qui a guardare i treni, sai che noia.»
«Non sto qui tutti i giorni» risposi.
Stavo per dirle la verità, ma mi trattenni. Mi aveva preso per un vero barbone. Il mio camuffamento era riuscito alla perfezione.
«Puzzi come un porco» mi disse.
«Tu, invece, odori di gelsomini» feci io.
Lei si mise a ridere. Una di quelle risate tragiche, mista a pianto e disperazione.
«Ho voglia di fumare. E di bere, e di morire» disse.
Cercò di alzarsi, ma io la tenni stretta.
«Resta qui» le dissi.
Sospirò, e le chiesi di nuovo: «Perché?»
«La vita è uno schifo» disse lei. «Non vedo mia figlia da dieci anni. Si vergogna di me. Avere una madre puttana è troppo imbarazzante. Come darle torto?»
«Si rifarà viva» le dissi. «Un bel giorno tornerà.»
«Già, come no» fece lei.
Teneva le mani unite sulla pancia. Sospirò di nuovo.
«Ed è pure finita l’estate» disse. «Ogni giorno, da adesso in poi, sarà sempre più deprimente.»
«Ci saranno ancora delle giornate belle. L’ autunno non è poi così brutto come pensi. E poi c’è l’estate di San Martino. Puoi farla finita a Natale, se vuoi. Si suicidano un sacco di persone, a Natale. Forse per il freddo, o per tutta quell’aria di falsa concordia che c’è in giro.»
Lei sorrise. Poi, improvvisamente, si addormentò.
Ne approfittai per andare a prenderle il panino e la birra che le avevo promesso. Quando tornai, lei non c’era più.
La cercai. Nella sala di attesa, nel bar, nei bagni, ma non la trovai. Nei giorni successivi lessi i necrologi e le notizie di cronaca sui giornali e tornai alla stazione, ma di lei nessuna traccia.
Il film non venne più girato. Aspettai invano una nuova chiamata, ma non arrivò.
Continuai a fare la comparsa per qualche altro anno e poi cercai un vero lavoro.
Trovai un posto da cameriere in un ristorante proprio nei pressi della stazione. È ancora lì che tutt’ora lavoro. Nelle ore di spacco vado a guardare i treni. Ogni tanto penso a quella grassona, mi sembra sempre di scorgerla da qualche parte, tra tutta quella marea di gente che parte e che arriva.
A Bob De Niro non ci penso quasi più. Non so perché, ma mi è perfino diventato antipatico.
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