Una volta un cuoco stellato ha detto che l’uovo al tegamino è la ricetta più difficile che esista.
Il motivo è ovvio: perché è la più semplice.
La tentazione di aggiungere qualcosa a una ricetta così basica, diciamo pure il grado zero della cucina, che sia un ingrediente o una variante nella cottura, il bisogno di aggiungere un tocco personale e rovinare tutto, è dietro l’angolo.
Difficile invece è rispettare l’uovo e farlo risaltare. Mettere quel tanto (quel poco) che serva al rosso e al bianco per non perdere niente di quanto potenzialmente e segretamente serbato. Difficile è non dimenticarlo sul fuoco – basta un secondo – e bruciarne i bordi; complesso è persino il non averne troppa cura.
È preferibile, per questa operazione, un uovo fresco (caldo), appena deposto – un fatto recente, una storia che impatti sul mondo per come lo conosciamo adesso – deposto magari da una gallina libera di razzolare nel campo. Ma ogni uovo, in realtà, persino quelli sofisticati che non scadono mai, quelli che escono dalla povera gallina x stipata nel loculo y della sterminata batteria z, porta con sé la traccia del miracolo, tutti i nutrienti per un incipit vitale, rotondità perfetta ed essenziale, kit di sopravvivenza contro la morte e il disordine.
Ho sempre pensato al documentario come all’uovo al tegamino delle forme d’arte. Certo servono mezzi, soldi, una squadra di persone che creda nel progetto, per non parlare della distribuzione, ecc. ecc. Ma in linea del tutto teorica e, uscendo da certe logiche, anche pratica, se trovassimo una storia dotata di una sua – come chiamarla – “rotondità”, allora non ci servirebbe altro che una telecamera. Il problema vero, semmai, è rispettare la storia stessa e restituirla come ci è arrivata, senza aggiungere o togliere nulla.
Da Herzog che entra nella sua (storia) e ascolta la registrazione della morte di Timothy Treadwell aka “Grizzly man”, a Jos de Putter (“The shot”, visto al Festival dei popoli alcuni anni fa) che semplicemente mantiene un primo piano fisso di sua figlia mentre guarda “Bambi” per la prima volta, si fa presto a dire documentario.
Il genere, tanto più nella sua attuale fioritura, si separa e rifrange come luce in un prisma. Basti vedere la straordinaria scelta offerta, anche quest’anno, dal Festival dei popoli.
Nella sua prima edizione on-line la delusione di non poter naufragare un intero pomeriggio nel buio della sala è stata sopita dall’estasi di possedere tutti i film su un computer e dalla possibilità di avviare la visione con un clic in qualunque momento o stanza della casa\prigione che per l’occasione lasciava cadere le pareti e scoperchiare il soffitto.
Nessun documentario ha deluso, molti sono stati entusiasmanti, alcuni perfetti. In questi, qualcosa – potenzialmente e segretamente serbato – va al di là del documentario stesso.
Perché se è vero che nella fiction un’idea è intrinsecamente portata a trovare un senso e una compiutezza come un paguro ritrova sempre il suo buco anche se lo portiamo a chilometri di distanza, così in un documentario, in una lettura mimetica e aderente di una storia, quello che trapela e tradisce è piuttosto il contrario: che la realtà è assurda, che la realtà non ha senso.
Sono certi momenti isolati e involontari a provocare di solito in me questa sorta di incredulità rivelatrice. A detta degli stessi documentaristi, in effetti, è quasi sempre da un atto involontario che escono le vere magie. È lì che “la storia” viene davvero rispettata. (Ma quale storia?)
È la voce rotta dal pianto di Duccio Chiarini, autore de “L’occhio di vetro”, che si commuove leggendo una lettera del bisnonno fascista – da adolescente mettersi in camera la foto di un fascista fucilato significava aderire all’idea politica della resistenza, essere dalla parte giusta, ma adesso che riesce a vedere il plotone dei fucilieri e a sentire il muro dietro di sé, il suo pianto è anche una resa alla complessità.
È l’attesa a largo delle balene nel documentario circolare “Wieloryb z Lorino” di Maciej Cuske, è l’occhio morto del cetaceo.
È l’imperfezione, la malattia nell’iride del pastore andino protagonista di “Piedra Sola” di Alejandro Telémaco Tarraf – un uovo al tegamino con scaglie di tartufo, visto l’uso possente della fotografia.
Sono i momenti morti di “Le Périmètre de Kamsé” di Olivier Zuchuat, i margini della storia, qua e là bruciacchiati.
È la rivelazione del demolitore Fred, che esce dal filo narrativo per entrare in altre e più profonde ferite, nel documentario “Aylesbury estate” di Carlotta Berti. L’uovo, in questo caso – la gentrificazione – è un fatto di enorme impatto sociale, in una città come Londra in costante cambiamento e crescita; qui l’amore per i personaggi è reso evidente dalla libertà che trovano e il documentario è così aderente alla realtà che si sospetta continuamente possa accadere altro.
È l’uccello di cui parlavo ne “Il video del secolo”, un documento, più che un documentario, girato comunque da un professionista della videocamera sotto le torri gemelle appena colpite dai terroristi.
Il grado zero allora, il perfetto uovo al tegamino, lo troviamo forse in quello spazio che il documentarista lascia affinché le cose accadano sotto\senza la sua direzione, e un buon documentario – la cosa più difficile che esista – risiede nell’equilibrio fra il fare e il non fare, tra l’essere presente del regista e la sua scomparsa definitiva.
Questo, io credo, perché applichiamo alla vita la stessa sospensione dell’incredulità che applichiamo a qualunque altra storia ci venga raccontata. La vogliamo interpretare esattamente come facciamo con i sogni. Togliere la volontà, sospendere quella sospensione è in qualche modo risvegliarci.
È quindi paradossale che il miglior documentario possibile si trovi su Napflix (esatto, Napflix), la piattaforma pensata per far dormire la gente. È un video di 9 ore di un ventilatore acceso. Si intitola “Oscillating fan” e il regista… Guardatelo. Dopo mezz’ora, un’ora al massimo, rivelerà tutto il suo potenziale fantastico e terrificante.
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