di Simone Tempia
Il Piero si sveglia nel cuore della notte pensando: “La felicità è un lavoro soddisfacente”. Subito dopo questo pensiero, il Piero aggiunge: “Il mio lavoro fa schifo”. Il mondo, affogato nella notte che si percepisce dalle stecche delle persiane, dorme un sonno sudaticcio da un agosto torrido. Dorme anche Betta, al suo fianco e dorme anche la piccola Maria Attila, nel suo lettino abbracciata al suo coniglio di peluche a cui ha tagliato la testa. «Le orecchie mi facevano il solletico» aveva detto la bambina. Il Piero non aveva trovato di che obiettare.
“Il mio lavoro fa schifo” pensa girandosi nel letto e “fa schifo il mio lavoro” pensa rigirandosi dall’altra parte. Come può essere felice un uomo il cui lavoro fa schifo? Quando si alza il pensiero continua a martellare sulle gengive come una carie sul far dell’ascesso. Arriva in agenzia e, senza passare dall’angolo di scrivania a lui riservato, va diretto alla macchinetta del caffè.
“Il mio lavoro fa schifo” pensa mentre con il dito va su e giù sui tasti colorati del distributore che da sempre garantisce una triplice scelta di bevanda: il disgustoso base, l’imbevibile premium e il gastrite deluxe. Dopo 10 anni di disgustoso, per una volta, Il Piero prende il gastrite. È un segno. Con il primo reflusso del mattino accende il suo computer portatile e, dal basso della sua sedia pieghevole, si fionda sola-andata sugli annunci di lavoro.
“Qualcosa che mi renderà felice lo troverò” pensa. “Ho esperienza”.
***
Il Piero Marchese, 43 anni, codice fiscale a memoria, partita IVA senza via d’uscita, precario a tempo indeterminato incatenato al terziario avanzatissimo. Fisico nella media mediterranea, corpo appesantito nella media della dieta (poco mediterranea), poco sport, tante promesse, credente nell’attività fisica ma poco praticante, oro olimpico nell’oscillazione della natica sulla poltrona da ufficio collocata in quello che un tempo sarebbe stato chiamato “lo sgabuzzino” e che lui ha ribattezzato: il mio studio. Stakanovista della penna, virtuoso del “non c’è problema”, artista del “ci penso io”, il Piero è un cottimista dei pezzini e dei titolini, delle ideine e dei progettini, il tutto all’insegna di un diminutivo che rende la sua attività agli occhi dei suoi datori di lavoro solo una questione di attimini, momentini, ritaglini, minutini e quindi mai di soldoni.
“Qualche altro lavoro che mi renda felice lo troverò” pensa e qualcosa il Piero trova: cercasi fresatore. Cercasi lattoniere. Cercasi montatore meccanico. Cercasi tagliatore di lamiere. Cercasi impiantista. Cercasi mulettista. Cercasi operaio elettricista. Cercasi addetto di carpenteria. Cercasi addetto alle lavorazioni meccaniche. Cercasi banconista. Cercasi copywriter.
“Oh eccoci” pensa il Piero.
“Cercasi copywriter per azienda nel settore del lusso”. Ci sono (si rassicura il Piero). “Richiesta capacità di lavorare in autonomia e per obiettivi, proattività, senso dell’iniziativa.” È il mio (si carica il Piero). “Richiesto buon inglese parlato e scritto, flessibilità, voglia di imparare”. Posso adattarmi (si fa andare bene il Piero). “Il candidato ideale sa usare perfettamente il tornio a colonna”. Il Piero conclude la sua ricerca di lavoro che ha perso anche l’appetito. A pranzo lascia sulla scrivania il suo pacchetto di tarallini pagati 15 euro al distributore automatico chiamato dagli assunti la Mensa del collaboratore.
«Non li mangi? Posso?» chiede il Bellavita, redattore rampante semiassunto con contratto da linotipista gregoriano per le comunità montane: è in evidente astinenza da carboidrati per la dieta ketogenica e osserva il pacchettino con la salivazione di un venditore della Folletto che sente rispondere al citofono.
«Prego, non mi vanno» dice il Piero.
Mentre il Bellavita si crea il suo quotidiano senso di colpa, il Piero prende la decisione.
«Sento l’ingegner Poli» esclama ad alta voce.
«Chi?» risponde il Bellavita sfargagliante.
Ma come?! L’ingegner Poli! L’ingegner Poli è l’amico che sa risolvere tutti i problemi con alcuni rapidi, immediati, pragmatici, semplici passaggi. Conosce sempre qualcuno che. Sa sempre cosa fare se. E quando non sa, dice: «Ciò che non ti ammazza, ti fortifica». L’ingegner Poli è amato e rispettato da tutti i suoi amici. Per lo meno quelli che gli sono sopravvissuti.
«Non ti preoccupare. Ho quello che fa per te. Mio cugino sa di uno che sta cercando per un’agenzia che lavora per un’azienda che forse assume» dice l’ingegner Poli.
“Davvero?!” Pensa il Piero ma contiene l’entusiasmo e si limita a un circostanziato: «E a te come va?»
«Bene! Sto allenando i piccoli del minibasket!» risponde l’ingegner Poli che nel tempo libero si diverte a forgiare le giovani e innocenti nuove leve con lo stesso stile con cui agisce sulle vite di tutti gli altri.
«Terzo tempo? Passaggi?», chiede il Piero.
«No, corsa sui carboni ardenti! Per fare gruppo. Scusa devo andare che uno mi si è innescato e devo prendere l’estintore. Ciao!» saluta l’ingegner Poli.
***
L’ingegner Poli è persona di parola quindi dopo qualche minuto il Piero riceve un messaggio con il numero di telefono da chiamare. Che rimanda a una mail a cui scrivere. Che rimanda a un altro numero di telefono. E a un altro nome da evocare mentre si chiama e si scrive. Finché scrivendo, chiamando e sacrificando capretti neri, dopo circa cinque ore nel terrore di confondere nomi e indirizzi, riesce ad avere una data. «Mi raccomando: sia moderno, casual, smart». il Piero non capisce, ma si adegua.
***
Il Piero si presenta al colloquio di lavoro molto sciolto: i 40 gradi all’ombra, nel suo completo frescolana blu, gli conferiscono addirittura un’essenza gassosa. D’altro canto dopo 4 anni di smartworking il completo buono che ancora gli sta bene è uno solo e lo ha scoperto la mattina stessa.
Ad accoglierlo al colloquio un giovane responsabile delle risorse umane con un principio di calvizie che cerca di mascherare con i molti colori del suo fazzoletto da taschino.
«Bene, ma bene bene bene, ma bene bene bene Marchese Pietro, cosa porta un nobile da noi?» dice il responsabile delle risorse umane con un entusiasmo da animatore da villaggio turistico.
«In realtà è Piero Marchese» risponde Il Piero in evidente imbarazzo.
«Come scusi?».
«Piero Marchese, mi chiamo Piero Marchese. Non sono marchese. Cioè, lo sono, però non di titolo ma di cognome». Il Piero dice queste ultime parole a quello che è ormai il simulacro del suo interlocutore: come un palloncino bucato, il giovane responsabile si è svuotato sotto gli occhi del Piero di ogni interesse per quella pratica e ora armeggia distratto con il cellulare, con lo sguardo completamente affogato nello schermo e la voce che rasenta quella del casello autostradale mentre ti dice “Buon viaggio”.
«Strano, strano. Comunque bene bene. Se lei è qui un motivo ci sarà, no?»
«Credo di sì» risponde Il Piero.
«E non vuole cercare altrove»
«Direi di no»
«E mi dica» chiede il responsabile ormai in evidente stato di alterazione mentale da social network «Quali sono i suoi pregi?».
«Sono un gran lavoratore» afferma Il Piero con energia cercando di risollevare le sorti di quel colloquio.
Sulla parola lavoratore, il responsabile delle risorse umane viene scosso da un tremito elettrico. Si solleva sulla sedia come se qualcuno gli avesse versato un secchio d’acqua gelata a tradimento nel collo inamidato della polo, giù fino all’osso sacro.
«Lavoratore?»
«Sì, sono un gran lavoratore. Lo hanno sempre riconosciuto tutti».
«Ah ma capisco! Lei è un lavoratore!» Il giovane si distende in un enorme sorriso, si alza in piedi in tutta la sua verticalità, dal malleolo depilato fino all’ultimo centimetro della sua scatola cranica. Si avvicina a Il Piero e lo prende sottobraccio come un vecchio amico.
«Ma bene, bene, bene, bene bene bene bene bene ma allora lei è qui per lavorare! Lei sta cercando un lavoro! Ma adesso capisco tutto! Ma non mi avevano informato! Ma a saperlo prima!». Docilmente i due si avviano verso l’uscita della stanza. «Ma vede, ma capisce, che noi qui siamo un’azienda moderna, casual, smart! Lo vede, no?»
«Lo vedo».
«E capisce anche lei, noi non possiamo… insomma».
«Non potete…?»
«Non possiamo mica assumere gente che ha bisogno di lavorare!»
«Ah no?»
«Ma certo che no! Siamo una realtà moderna, casual, smart! Il bisogno del lavoro è una cosa così anni duemila, così vecchia, così – mi permetta il termine – proletaria. No, noi qui siamo una grande multinazionale che guarda al futuro. Che vuole avere una certa immagine».
«Ah sì?»
«Certamente. E sa come si fa a guardare al futuro? Assumendo persone che non hanno bisogno di lavorare: ereditieri, cacciatori di dote, mantenuti di lungo e breve corso, figli di imprenditori… siamo molto aperti! Non facciamo alcuna discriminazione! Accettiamo candidature fino al quarto grado di parentela di principi, re e sceicchi. Indipendentemente da orientamento sessuale, genere e paese di origine. Democratici nella ricchezza è il nostro motto interno».
«Ma io…» sussurra mortificato il Piero.
«Eh lei! Lei! Lei ha questo problema: ha bisogno di un lavoro e noi qui proprio non possiamo darglielo. Capirà: pagare i lavoratori è una cosa da poveri. Ci rovinerebbe l’immagine coi fornitori, gli sponsor, i clienti. Ci rovinerebbe la brand identity. Siamo un’azienda sana, solida, forte. Possiamo contare sulle entrate che ci portano ben 500 famiglie dei nostri dipendenti. Capisce anche lei, assumere chi ha bisogno di denaro sarebbe mortificante» dice l’uomo sempre più cordiale.
«Però io…»
«Eh lei! Lei! Lei non è ancora pronto. Quando si sarà fatto un bel gruzzolo, una bella rendita certa, un bel piano di accumulo, ecco… si faccia risentire che il suo curriculum merita! Merita davvero! Un ottimo curriculum! Peccato per questa cosa del lavoro, ma per il resto davvero notevole» gli dice l’uomo e poco dopo il Piero è già stato spedito fuori da una porta da cui non era entrato.
A cena, il Piero guarda la sua pizza del giovedì come fosse la bara della nonna.
«Che c’è?» gli dice Betta.
«Il mio lavoro fa schifo» confessa il Piero.
«Ma tu no» gli dice Betta.
E la pizza prende tutto un altro gusto.
Bello!!!!
Scorrevole e accattivante in una scrittura agile e, secondo me solo apparentemente, leggera che fa divorare il testo per il desiderio di andare a scoprire cosa accade dopo quello che stai leggendo, per scoprire come si sviluppa una storia, anche lei apparentemente semplice, nella quale però molti di noi lettori si possono riconoscere.
Rilevo forse un’incongruenza tra la parte che si svolge chiaramente in un ufficio e il successivo quadro nel quale si dice che il Piero recupera l’unico completo buono dopo 4 anni di smart working: o va in ufficio nello sgabuzzino con la scrivania dove ci sono anche la macchinetta del caffè e il collega a dieta oppure sta a casa e lavora in smart. La scena davvero fantozziana del vestito è carina ma è dissonante rispetto a quello che la precede.
Comunque se questo è l’inizio di qualcosa di più lungo, lo trovo veramente un ottimo incipit che lascia aspettative per grandi promesse.
In conclusione che dire: penso che non mancherò di leggere il testo completo non appena disponibile!
Buon lavoro!
Mi è piaciuto molto, fa riflettere sulle nuove condizioni del lavoro letto con molto interesse come le altre storie! Continui cosi
Molto bello e scorrevole amaro e realistico…….. complimenti come al solito ……. ciò che scrive mi fa sempre riflettere. Bravissimo
Bello !!! purtroppo lo specchio della vita di chi è alla ricerca del lavoro soddisfacente e come sempre Betta, una DONNA,ti riporta alla realtà gratificandoti con un semplice ” ma tu no “. Complimenti sempre piacevoli e piccantine le sue scritture.
Ammetto di averlo letto tutto d’un fiato. Bella storia, finale eccellente e veritiero, fa sorridere amaramente. Per il resto, se sono ben accette anche le critiche, ho trovato il linguaggio iniziale un po’ “grossolano”, poco ricercato, poco forbito.
Come sempre l’autore Simone Tempia si distingue nella sua narrazione con tocco unico ed ineguagliabile, non ho mai adorato “Fantozzi”, ma adoro Simone ed il suo modo di scrivere elegante , profondo che va oltre al personaggio e alle parole e che descrive e scrive sempre qualcosa di unico e diverso, in cui si racchiude spesso molta realtà…l’ho trovato bellissimo…non vedo ora esca il libro….chapeau!!!
Complimenti! Bello e scorrevole! Realista! Nelle poche righe fotografa uno spaccato di una generazione di lavoratori, precari, malretribuiti, false piva e di tutto il mondo delle società che “assumono i figli di”. Acquisterò il libro.
Da ritoccare qualcosa a livello grammaticale e c’è un’incongruenza tra Smart working/macchinetta del caffè, ma si legge d’un fiato e il tema fa presa su tutti noi, alla ricerca di un riscatto. Attendiamo il libro!
Semplicemente sublime, realisticamente moderno… Un po’ troppo stile fantozzi che lascia l’amaro in bocca ma drasticamente veritiero… Adoro gli scritti di Simone che mi lasciano sempre uno spunto di riflessione
Davvero bello, scorrevole e… inatteso nel finale, mi ha piacevolmente sorpreso. Apprezzo molto il lessico molto ricco.