Lineas Entre dos Mundos
Scoprimmo l’America un giorno di giugno. Avvenne in maniera casuale, non sapevamo cosa cercavamo, non sapevamo cosa avremmo trovato, e se qualcosa sospettavamo, di certo non quello. Ciò che ci spinse lontani da casa fu una specie di febbre o per meglio dire una sete implacabile. Ma non tutti decisero di partire. Molti di quelli che erano cresciuti con noi non varcarono mai le colonne d’Ercole che erano le strade familiari in cui eravamo cresciuti. Alcuni di noi, anni dopo essere partiti, moltissimi anni dopo, sarebbero tornati indietro per vivere la vita adulta, e avremmo ritrovato quei vecchi compagni che non erano partiti mai.
Stavano ancora seduti di fronte a un’osteria e ogni volta che ci incontravano erano sempre così felici di parlare con noi. Si ricordavano tutto, di quello che eravamo stati, di piccoli eventi o persone o cose che a noi sembravano lontanissime e quasi dimenticate. Ma poi, se si finiva a parlare d’America, loro scuotevano la testa e dicevano che no, non c’era un posto migliore di quello in cui eravamo nati.
Era vero? Noi credevamo di no, malgrado i nostri visi, questo sì che era vero, fossero più stanchi e per così dire esausti rispetto a quelli degli amici rimasti, o forse non era stanchezza: in quei visi immobili, di fronte alle osterie del quartiere, riuscivamo a scorgere ancora i volti dei bambini che erano stati, e questo ci era insopportabile e ci faceva dire, rifiutando un’ultima bevuta in compagnia, che avevamo avuto ragione noi. Ma ragione di cosa?
Scoprimmo l’America un giorno di giugno. Dovevamo avere sui sedici o diciassette anni. La scoprimmo dopo un viaggio che per molti fu pauroso, per tutti un sogno oscuro che poi sarebbe tornato a visitarci per sempre. Superammo le Colonne d’Ercole del quartiere in cui eravamo cresciuti e facemmo rotta in direzione di un ipotetico centro che era per noi esattamente identico a quello che deve essere per gli Orientali: un centro vuoto. E la trovammo, sul nostro cammino, l’America.
Alle spalle di un imponente statua di pietra, di un antico predicatore, c’era un chiosco a forma di tempio e la sua indubbia regina dai molti nomi e dai molti cognomi, che ti accoglieva e ti permetteva dopo un attimo di chiamarla semplicemente: Larosy.
Larosy ci serviva bevande di cui mai prima d’allora avevamo gustato i sapori, con menta e tamarindo, zucchero di canna, bevande in plastici calici corposi, densi, che ci lasciavano intontiti, a volte completamente ubriachi, riversi nei cespugli di bosso o prostrati ai piedi dell’enorme statua, dove l’uomo con la croce in mano sembrava guardarci e giudicarci. C’erano musiche latine a volume molto alto, a tutte le ore, ma l’ora del giorno in cui preferivamo avvicinarci in massa a Larosy era quando il sole tramontava. E lei ci accoglieva ogni giorno con il suo grande sorriso creolo e in cambio di una piccola moneta ci versava una bevanda che ci stordiva, ci rendeva euforici, ci faceva danzare, e il luogo intorno a noi assumeva allora tutte le sfumature del verde e dell’oro e danzavamo e danzavamo imitando chi ci stava intorno e le ragazze intorno a noi ci rivolgevano sguardi languidi e fugaci e quello sembrava il posto migliore dove poter essere al mondo, ed era così. E per un attimo, per un attimo soltanto, ripensavamo a quei vecchi compagni che mai sarebbero usciti dal quartiere e che in quel preciso momento dovevano essere come ogni giorno di fronte a un bar o a un’osteria, e allora ci dicevamo, sì, valeva la pena rischiare tanto, attraversare il sottopassaggio di Piazza delle Cure, ignorare i dolci richiami e la fisarmonica di Totò Dinamite, e i suoi discorsi folli e rassicuranti.
Qualcuno diceva che quella non fosse l’America, e neppure il Sud America. Qualcuno più attento alle sfumature sosteneva che quella era l’America caraibica, l’America Centrale. A molti di noi semplicemente non interessava, e solo importava che il bicchiere fosse sempre pieno, e prolungava quel crepuscolo su Piazza Savonarola in una festa che sarebbe durata un decennio, e ci avrebbe lasciati stremati, con una vita intorno che era semplicemente accaduta.
Scoprimmo l’America in un giorno di giugno, lasciando Le Cure per non rimetterci piede mai più. Altri invece tornarono, per raccontarlo, io per esempio. Tornammo alle Cure dove tutto era rimasto identico, le stesse osterie, gli stessi vecchi amici che potevi incontrare di fronte al bar Codecasa un sabato mattina o vagare tra gli scaffali della Coop, l’unica cosa in effetti a essere cambiata. La vecchia Coop era stata rasa al suolo e la nuova svettava lungo il fiume in un palazzo moderno e anonimo.
Allora, tra quei corridoi pieni di merci di ogni specie, i vecchi amici ti dicevano con una luce negli occhi, quasi con una specie di febbre, o sete, Hai visto, qualcosa è cambiato anche qui, è arrivata l’America fino a noi. Non c’era bisogno di andare tanto lontano, e di fronte al nostro prolungato silenzio aggiungevano, anche tu sei tornato, anche tu, e noi non potevamo replicare niente.
Perché tra quegli scaffali illuminati al neon era impossibile parlare, dire una sola parola, raccontare a chi non c’era stato di quella luce di giugno che ci aveva accecato, quel giorno di giugno, quando scoprimmo l’America.
Questo racconto fa parte della rubrica Lineas Entre dos Mundos, percorso di avvicinamento all’edizione 2024 del festival Entre dos Mundos, dedicato al cinema iberoamericano, che si terrà a Firenze dal 19 al 21 settembre 2024.
Da giugno a settembre, ogni settimana, pubblicheremo un racconto ispirato a un film scritto, diretto, girato e prodotto in un paese dell’America Iberica.
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