Guardò le proprie mani insanguinate: alla fine di una lunghissima giornata era difficile dire se, risalendo nel tempo, lustri, decenni prima, fosse esistito un momento diverso, più sereno. Più – arrossì mentre lo pensava – felice.
Parliamo: tutto si ferma. Non cerchiamo più acqua, non serve. Siamo rimasti solo noi. Se ci ascoltiamo, pochi: qualcuno in basso, nessuno in alto. La fine non è la stessa per tutti. Ci vuole tempo per consumarsi.
Si appoggiò alla scrivania imbrattando di rosso i fogli sparsi – il contratto ancora sul tavolo, una busta chiusa. Fece per sedersi e un’impronta macchiò il bracciolo della poltrona in pelle. Allora rovesciò la borsa in cerca di un fazzoletto e poi rise: un fazzoletto non avrebbe cambiato nulla. Da quando non rideva così?
Siamo cresciuti verso l’alto, semplicemente. Non abbiamo imparato e non insegniamo nulla. Accogliamo quello che accade, ogni ciclo ci porta e ci toglie qualcosa. Siamo cresciuti e presto smetteremo di crescere.
La felicità: non aveva mai permesso a simili stupidaggini di disturbarla. Si rivedeva giovane stagista al piano terra di questo stesso palazzo mentre portava caffè a vecchi imbiancati che non mancavano di occhieggiarle il culo. Voleva essere ricca quanto loro, non doversi preoccupare di quanto incredibilmente caro fosse il ristorante che le piaceva. Voleva non dover controllare quanto le rimanesse sul conto corrente. Ma, ancora di più, voleva essere potente, piegare gli altri solo per il gusto di farlo. Voleva decidere della sua vita e delle vite che le stavano intorno senza rendere conto a nessuno. La cosa più simile alla felicità che conosceva era la sua Mercedes, il suo autista che guidava silenzioso, quel vago senso di solitudine e superiorità che sentiva ogni sera mentre rientrava a casa: tutti dormivano e lei tesseva le vite di migliaia di persone che non avrebbero saputo indovinare il suo nome.
Non c’è altro, per noi, se non questo: crescere. Anche adesso, mentre moriamo, da qualche parte continuiamo a pompare, a succhiare, a digerire, a germogliare. Non desideriamo nulla.
Era sopravvissuta ad un cancro aggressivo, una mastectomia completa e due anni di chemioterapia. E mai una volta aveva sentito il bisogno di mettere in discussione la propria vita, non le era passato per la testa di aver sbagliato qualcosa. Aveva continuato a lavorare ogni giorno, nascondendo a tutti quello che c’era da nascondere. Le sue scelte migliori, più lungimiranti, le aveva prese distesa in un letto d’ospedale mentre delle infermiere gentili continuavano a suggerirle di riposare, di spegnere il telefono e dormire un po’.
Voi siete di fretta, non guardate le nuvole che sfamano o il rapido giro del sole. Apparite e sparite con gli stessi pensieri incomprensibili: cosa succederà? Ho sbagliato? Come se toccasse a voi decidere, come se non fosse già deciso. Siete preda di una grande pena che vi consuma e che vi muove.
Piegata a raccogliere la pochette, vide in basso, nell’angolo della finestra, la quercia. Era sempre lì e lei l’aveva guardata un paio di volte in vent’anni. Le era sempre sembrata solitaria e stasera la vedeva scura, con i lunghi rami carichi di foglie marroni e non verde smeraldo come avrebbe richiesto la primavera. Si guardò di nuovo le mani, ancora sporche di sangue: non rideva più. Uscì dall’ufficio dove aveva passato buona parte della vita: la porta in vetro non fece alcun rumore, solo un soffio dignitoso ad accogliere l’impronta insanguinata sulla maniglia. Invece di scendere nel parcheggio sotterraneo, salire in macchina, salutare il suo autista, camminò verso il giardino dove non andava da anni. Un paio di mesi prima, aveva approvato la ristrutturazione del laghetto e la posa di nuove panchine. La quercia era l’ultimo albero prima della recinzione in cortén alta tre metri e sorvegliata ventiquattro ore al giorno.
Ora, lentamente, scende il silenzio. I nostri anelli sono finiti, lo sappiamo. Saremo casa per altri. Tutti gli sforzi, le attese, la fatica, ci hanno portato qui. Abbiamo aspettato e non è successo nulla, come deve essere. Siamo stati fortunati.
Non aveva paura: si tolse i tacchi e iniziò a camminare sull’erba tutta uguale. Avanzò nel buio, a piccoli passi, fino a toccare la corteccia che le sembrò arricciarsi e sfarinare liberando un tronco liscio e asciutto: quell’albero era morto.
Non essere triste: sei arrivata anche se non c’è più nessuno.
Pensò che aveva sottovalutato i fallimenti, che con le vittorie era sempre necessario programmare la prossima, mentre le sconfitte si sedevano a terra, come adesso stava facendo lei, e non chiedevano niente. Appoggiò la schiena contro il tronco e distese le gambe.
Le cose cambiano continuamente, anche quando tutto sembra immobile.
Vide il proprio autista entrare nel palazzo di uffici ancora addormentati, certamente per cercarla. Era un bell’uomo, nonostante l’età. Sarebbe salito fino al trentesimo piano, avrebbe bussato, senza risposta. Allora avrebbe spinto la porta con discrezione, solo uno spiraglio, chiamandola, poi più forte. L’avrebbe visto subito? Avrebbe urlato? Le sue ossa le ordinavano di alzarsi, infilare le mani nel laghetto e lavare via tutto, tornare dentro, scivolare nelle docce della palestra, uscirne sorridente. Avrebbe potuto ancora salvarsi? Dove sarebbe dovuta arrivare, ora che era in cima?
Tu sei come noi.
«Le cose cambiano» disse sottovoce, senza muoversi, cercando il cellulare nella tasca della giacca. Voleva chiamare qualcuno: chi avrebbe sorriso, sentendo la sua voce?
La quercia cigolò al vento, coprendola di foglie secche: era quasi l’alba.
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