… sono innamorato di Rooney Mara per un lucore speciale dei suoi occhi, qualcosa che ho visto forse solo in certi ritratti di Rembrandt, e per la grazia che ha nel muoversi, dunque per lei ho visto questo film, per lei e per il suo ragazzo nella vita reale, Joaquin Phoenix, vegano come lei, che il 26 gennaio 2006 mentre guidava su una strada di montagna sopra Hollywood cappottò ubriaco come il protagonista del film – il disegnatore umorista Callahan – e fu estratto dalle lamiere da Werner Herzog che passava di lì senza un pensiero al freddo tagliente o alla paura, bussò al finestrino dell’auto e gli chiese con voce calma di passargli l’accendino con cui stava giocando, a testa in giù, ancora legato alla cintura, gli disse passamelo e rilassati, e lui rispose bianco in volto, io sono rilassato, e poi glielo strappò di mano visto che aveva i vestiti e i capelli zuppi della benzina che grondava dal motore e sarebbe stato un gran casino se una scintilla fosse scoccata tra la ruota zigrinata e la pietra focaia, sarebbe stato un casino inenarrabile e adesso probabilmente non saremmo qui a parlare di questo film che (sia detto fra parentesi) non è affatto un buon film, ma c’è Rooney Mara e io…
Giovanni Ceccanti
Durante l’anteprima all’arena estiva si discute della possibilità o meno di fumare: se si fuma in quanto arena o non si fuma in quanto cinema, e se ci si fa caso i posacenere ci sono ma in posizione abilmente defilata e non realisticamente fruibili dallo spettatore che, finalmente sciolto da tutta una quantità di vincoli etici non desidera altro se non sfiammarsi una cicca guardando un film scadente ed è francamente un po’ interdetto dalla permanenza nel limbo del dubbio e se ne sta lì a guardarsi intorno in cerca di una bracetta sospesa nell’aria di agosto ma niente, nessun coraggioso che abbia il cuore di aprire la strada; allora in assenza di meglio ci si sposta al bar per chiedere informazioni e alla fine si scopre che si può fumare un po’ ovunque, ma sarebbe meglio in posizione defilata come in effetti suggerito dai posacenere in modo da evitare rivolte popolari; ed è dunque qui che si stracciano gli indugi e si procede alla famosa paglia al gusto paradiso degustando una Bomboniera Algida tra un tiro e l’altro mentre nell’estasi del sapore neanche ci si accorge che il film scadente di cui sopra è bello che andato e così anche il venerdì sera: a casa alle undici e mezza senza niente da raccontare, e così, e così.
Francesca Corpaci
Il problema del film, dico al di là di certe scelte di regia che lo fanno apparire quasi come un prodotto televisivo o da serie Netflix quando il Gus Van Sant che più ho amato era quello elegante e minimale di Elephant e di quell’estenuante inseguire i personaggi lungo i corridoi di un college americano, cercare di riconoscere quella maglia gialla con la sagoma di un toro; e dico anche al di là anche di tutta l’imbarazzante trovata narrativa (un uomo caduto dalla carrozzina racconta a dei ragazzini che lo aiutano a rialzarsi tutta la sua storia: ma per favore, ma lasciamo i bambini liberi di crocifiggere e di essere crocifissi, lasciamo risuonare Bach, Cristodiddio), il problema vero di questo film è che il regista e gli sceneggiatori non hanno deciso se raccontare una storia o raccontare una vita, e con questo io intendo: se con Feuerbach (Abelardo e Eloisa) la vita è sempre sovrabbondante rispetto a una storia, qui si è provato a dare spazio a quella che si potrebbe chiamare esuberanza, considerando insomma anche certi fatti secondari che non sono pertinenti da un punto di vista strettamente necessario alla vicenda (di cosa parla questo film? di alcolismo? di imparare a vivere con la disabilità? di una passione? di un uomo che scopre la sua vocazione? di tutte queste cose insieme?), tuttavia l’intenzione frana miseramente e rimane abortita a livello di semplice intenzione, poiché rappresentare la vita e i suoi fatti e personaggi secondari e minori (rappresentare la molteplicità, rappresentare l’universo che è una serata di sbronza, rappresentare l’ebrezza, rappresentare un uomo che a una seduta degli alcolisti anonimi si alza e racconta il suo dramma personale avulso alla vicenda maggiore) e mantenere allo stesso tempo una vocazione alla narrazione (alla coerenza, all’unità) appare come un compromesso che io trovo anche teoricamente interessante (anzi lo trovo estremamente interessante), ma che in questo caso specifico risulta appiattire e banalizzare sia l’una che l’altra, sia la storia che la vita.
Simone Lisi
Rispondi