A Detroit se le sono date di brutto, poi hanno chiuso le fabbriche ed è davvero finito tutto. Ogni tanto esce un articolo sulla presunta rinascita della città: turisti attratti dallo skyline in decomposizione, cooperative sociali che piantano orti tra i palazzi, giovani imprenditori che trasferiscono le aziende in edifici dall’affitto irrisorio, artisti che lasciano monolocali sulla costa per occupare illegalmente enormi loft in cemento.
Sono tutte cazzate, dici tu. Farà anche sensazione un posto che in pratica è ridotto al set di un film, ma cosa rimane di una città se gli togli il lavoro? Cosa rimane dell’uomo?
Cosa rimane?
Non saprei dirlo, non bene come i miei amici che hanno studiato filosofia e la domenica vanno a seminari sul marxismo. Da qualche settimana un lavoro non ce l’ho più neanch’io. Sono diventata un personaggio e non una persona? Cosa è rimasto di me? Sono un luogo soggetto a spopolamento e abbandono, territorio consigliabile per avventurieri, morti di fame, persone in cerca di un nuovo inizio o individui senza molto da perdere? Sto per assistere alla fuga della classe media e a un esponenziale aumento di atti vandalici, violenti e soprattutto imprevedibili, in un crescendo di assurdità che culminerà in una sorta di alba post atomica con teatri convertiti in parcheggi convertiti in piazze di spaccio convertite in piantagioni di pomodori da cui famiglie malnutrite per decenni ricavano più dei due terzi della propria alimentazione?
Cosa rimane?
Rimane un oggetto su cui fantasticare. Un argomento di conversazione. Un tema sensibile ma gradito per sentirsi diversi, uguali, meno soli, salvi, ancora vivi.
Oltre il rimbombare delle parole le cose restano quelle di prima, solo con un po’ più di spazio a disposizione. Solo un po’ più difficili da inquadrare.
Cosa rimane?
Rimane un monumento. Una cosa così.
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