Stasera, a cena con mia moglie, mi sono accorto che tenevo la mano sinistra sotto la gamba tra sedia e coscia in una posizione scomoda e innaturale senza tuttavia farci caso, quando mi sono ricordato con straordinaria lucidità di quando da bambino, molti anni prima, mia nonna vedendomi con una mano sotto il tavolo diceva: – Che te l’hanno tagliata quella mano?
N.d.R.
Di fronte a questo incipit i presenti a una riunione redazione di In fuga dalla Bocciofila sono stati invitati a terminare il racconto restando dentro i limiti di una pagina (limiti che qualcuno non ha rispettato, ma vabbè).
1.
Guardo mia moglie. Entrambe le unghie pittate di verde smeraldo, peli sbionditi, pelle abbronzata e liscia dall’utilizzo di creme idratanti. La mano, la mia, mi s’informicola dato che continuo a posare tutto il mio peso su di essa. Se me l’avessero mozzata, la sentirei ancora? La sindrome dell’arto mancante.
-Ordiniamo?
Mia moglie fa un cenno al cameriere che arriva zelante. Lei sa già cosa prendere. Io sono abbastanza in me da ordinare qualcosa che non voglio davvero. Il saggio per sua natura è sempre incerto. Quando arriva il mio flan ho le dita fredde e rosa. Potrei masturbarmi pensando che sia qualcun altro a farlo! Mia moglie, magari.
Lei azzanna il piccione alle mele mi squadra senza vedermi. Mi guarda fisso negli occhi e non mi vede affatto. La mano è blu, le dita gonfie.
-Sei felice?
-Sono affamato, rispondo.
-È tutto il giorno che sogno questo flan.
Poi sollevo le braccia zombie e provo a impugnare la forchetta senza riuscirci.
-Sei un coglione, dice mia moglie.
-Ti amo, le rispondo sbavando.
2.
Poi mia moglie mi ha chiesto, come una ecolalia del mio pensiero, che avessi a quella mano che tenevo giù sotto il tavolo. Ho sperato che non lo dicesse, ma lei, stringendo gli occhi su di me in modo sadico, come se sapesse, la stronzetta, ha detto: – Che per caso te l’hanno tagliata?
-E va bene, le ho risposto. – Sì, me l’hanno tagliata, e ho sollevato la mano verso l’alto, esponendola in una rotazione ostentata, – E adesso ti sorbisci pure la storia di come è successo. Ascolta bene, le ho detto stringendo gli occhi in modo sadico. -Era tanti anni fa, le ho raccontato, quando ero un prigioniero in Siberia.
Mia moglie ha riso.
-Stavo dentro a una cella senza finestra, in un enorme edificio affacciato su campi di lavoro forzato. Che fame che avevo. Avevamo tutti fame. All’epoca tu mi mandavi due fette di salame e un filone di pane raffermo al mese.
-Io? ha chiesto mia moglie.
-Sì, tu, non lo ricordi?
Lei ha sorriso portandosi il bicchiere di vino alla bocca, per poi sorseggiarlo e intimarmi con un gesto delle sue paffutelle dita di andare avanti.
-Quelle due fette di salame erano buonissime, ma spesso le barattavo per una sigaretta, che dentro ai gulag rappresentava uno status sociale che poteva darti accesso ad altre fonti di alimentazione, come la zuppa di carta lische di pesce che ci davano per cena. Amore mio, quella era una vita dura.
-Lo immagino, ha risposto lei con la sua mano camusa che teneva la forchetta.
– E così, ho continuato io, passavo le mie giornate tra una picconata e l’altra sognando salame da mangiare e barattare. Solo che a un certo punto, nell’inverno del ’64…
-Nell’inverno del ’64? ha domandato mia moglie come un ecolalia.
-Sì, nel ’64 c’è stata questa terribile carestia e non avevamo neppure il cartone da mangiare, e così, una sera, ascoltami bene, ho detto al mio compagno di branda: se tu mi dai da mangiare la tua faccia, io ti faccio mangiare il mio piede. No, a me non piace il piede, ha detto lui. Sì che ti piace. No, ha protestato, e poi non voglio perdere la faccia. Va bene, e cosa vorresti mangiare di me? La mano. Va bene, gli ho detto, ti darò la mia mano, ma in cambio tu… A quel punto sono stato interrotto dall’arrivo del cameriere. Mia moglie aveva ordinato tagliatelle al ragù.
-E tu cosa hai avuto in cambio della tua mano? mi ha chiesto lei, parlando mentre masticava a bocca aperta in modo animalesco.
Io ho sorriso e ho tagliato le palle di toro che stavano nel mio piatto.
3.
-No, nonnina bella, sono pizzicotti.
Dicono, sui diari dei serial-killer più famosi, che le chiappe siano le parti più buone da mangiare. Pizzicotti, chiappe secche. Che gusto avrebbero, quelle di moglie?
Siamo al dessert, gli angoli della bocca si piegano mentre legge il menù.
Dicono, sui diari dei serial-killer più famosi, che le guance siano la arte più dolce. Moglie sceglie il dessert, chiede di dividerlo, pensa che hai ancora fame. Oh, se ne hai. Paghi il conto, sarà l’ultima volta. Com’è meglio tagliare un paio di chiappe? Dall’alto al basso, chiappe alla ghigliottina, un colpo preciso, meglio evitare torture.
Le metti in padella con un po’ di olio, chiappe semplici, più buone solo con sale e pepe. Cottura al sangue. Quando hai finito passi all’ultimo piano, le affetti la faccia a listelli, basta servirli con un po’ di panna, semplici. Moglie ride, il resto è ancora lì.
-Te l’hanno tagliata quella mano? chiede mentre raccoglie i soldi sul tavolo.
Conclusione
Ci siamo presi il cinema, penso mentre i miei colleghi di Bocciofila scrivono in finale di questa storia composta solo di un incipit. Ci siamo presi il cinema, è nostro, nessuno dopo di noi potrà più dire niente di sensato o aggiungere nulla, abbiamo esaurito il cinema, è nostro, della bocciofila, il cinema è finito per causa nostra, niente esisterà più dopo di noi, anzi esisterà di certo qualcosa, ma non il cinema, scrivo con la mano destra sul quadernino, mentre la sinistra è sempre sotto il tavolo e allora capisco: la mano sinistra è il cinema, o meglio quello che rimane: un moncherino.
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