di Marco Renzi
Sei seduto in cucina e aspetti che la cena finisca, perché ad attenderti c’è il primo DVD comprato coi tuoi soldi. Non l’hai ancora tolto dal cellophane: per farlo vuoi che arrivi il momento d’inserirlo nel lettore; dopodiché pigerai play, e vedrai i titoli di testa più belli della storia del cinema, con la ragazza danzante e i Public Enemy a far da colonna sonora.
Un attimo, e se Iddio vuole vedrai il miglior film del regista del quale hai letto tanto su «Ciak», un discutibile mensile di cinema che però in quel momento t’informa su quanto esce in sala.
Uno di questi titoli è La 25a ora, il protagonista è Edward Norton e il regista si chiama Spike Lee: uno bravo; col vizio di litigare con tutti, specie con Tarantino. Dicono di lui: il Woody Allen nero, lo Scorsese nero, cose così. Nelle foto si vede un ometto con gli occhialoni; indossa una felpa per lui troppo larga: in effetti, dà l’idea di un Woody Allen nero. Ma a parte l’aspetto, ci sarà altro?
Questo Spike Lee era dunque un comico? Da come lo descrivevano, avresti detto tutt’altro. Sicché rimaneva un mistero: di sicuro era nero. Sarà stato anche in gamba, vista l’attenzione che gli davano; e poi lo citava anche il Principe di Bel-air: qualcosa doveva pur valere. Era come Will Smith, anzi: ancor più nero. Incazzato perché nero e per essere tra i pochi afro-americani sotto il metro e settanta di altezza. Del resto, per loro sotto uno sotto il metro e ottantasette è alla stregua di Gary Coleman.
Insomma, La 25a ora devi vederlo in tutti i modi, ma al cinema vicino casa tua, nella brumosa provincia toscana, non ce n’è traccia. Però la locandina all’ingresso c’è. Chiedi conferma al gestore e ti risponde che ancora non lo sa: forse dovrà mettere in programmazione La finestra di fronte, l’ultimo di Ferzan Ozpetek, con Raul Bova.
Ozpetek. Raul Bova. Madonna bov… no, basta. È tutta una strategia di mercato: prima di vedere un film di Spike Lee, lo spettatore deve essere incazzato possibilmente quanto lui, o almeno come Adinolfi al matrimonio di Elton John.
Questo film lo definiscono «il suo miglior film dai tempi di Fa’ la cosa giusta». E vediamo allora questo Fa’ la cosa giusta, pensi: a regola sarà il suo capolavoro.
Al videonoleggio vicino metti la tessera nella macchinetta, scorri i titoli e no, non ce l’ha. Ma poi, il miracolo: ce l’ha in vendita; te lo fai dare dal titolare, sempre disponibile e prodigo di consigli. È tuo: la copertina gialla, un ragazzo di colore con un cartone della pizza tra le mani insieme a volti noti e ad altri mai visti. Caspita, quel ragazzo è lui: ha qualche anno in meno, però è Spike Lee. Caspita, fa anche l’attore. Sta’ a vedere che è proprio il Woody Allen nero.
Ora sei di nuovo a casa davanti alla televisione. I titoli sono passati e sei entrato nel vivo: Spike Lee interpreta un giovane fattorino di una pizzeria italiana. Il proprietario del locale, Sal, è Danny Ajello, attore che nella vita ha scelto di fare il luogo comune. E le pizze chi le fa? John Turturro. D’accordo, il film può anche finire qui: è già perfetto.
C’è poi un altro nero che si lamenta perché sul muro della pizzeria ci sono appese solo foto di italo-americani: Al Pacino, Sylvester Stallone, Frank Sinatra, Joe Di Maggio, Dean Martin, e non c’è neanche un «fottuto fratello nero»?
Ah, il tizio polemico è un certo Giancarlo Esposito, una meraviglia d’uomo capace di essere africano, meridionale e ispanico allo stesso tempo. Nei film di Spike Lee avrà i suoi bei ruoli, ma le masse si accorgeranno davvero di lui solo quando vestirà i panni di un signore della droga che usa il pollo fritto come copertura. E lo fa benissimo, e altrettanto faceva nel 1989.
Se all’inizio del film è già tutto un turpiloquio («ma che avranno sempre da berciare, questi neri?», dice tuo padre passando di lì a film già avviato), dopo le parole di Esposito sarà tutto un fottuto, un negro, un italiano del cazzo, mangiaspaghetti, mafia, muso nero, fanculo, figlio di puttana e tanti altri delicatissimi epiteti.
Il buon fattorino-Spike Lee fa da paciere, benché serva a poco: succede comunque un macello; specie quando si palesa uno dei personaggi più epici mai comparsi su uno schermo, ossia Radio Raheem, il gigante nero (la buonanima di Bill Nunn) con lo stereo in spalla e la solita Fight The Power dei Public Enemy a volume criminale. Adori Radio Raheem. E chi non ama Radio Raheem non ama la vita, pensi mentre la storia continua, ed è tutto un rincorrersi di scene memorabili.
Come quella in cui Spike Lee domanda a John Turturro del suo attore, sportivo e cantante preferito. Le risposte? Eddie Murphy, Michael Jordan e Prince. Tutti neri, amico, gli dice Spike.
E dopo arriva quella dove il nero si sfoga sfondando la quarta parete e se la prende con gli italiani, poi l’italiano insulta gli ispanici; dopodiché l’ispanico insulta l’orientale, e se l’ordine non è proprio questo preciso ci siam capiti ugualmente, dato che Edward Norton replicherà la cosa nella 25a ora davanti allo specchio. Lui però ne ha per tutti, e manda in culo anche gli amici, il babbo e la fidanzata.
Tu quella scena la vedrai solo quando riuscirai a beccare il film in videoteca, perché dal cinema lì al tuo paese, è giusto ricordarlo, non ci passerà, e lo rivedrai però una decina di volte.
Verranno anche Mo’ Better Blues e Jungle Fever, visti almeno tre o quattro volte; anche Crooklyn e Aule turbolente la loro visione se la sono meritata, e un paio pure Clockers.
Inside Man sei riuscito a vederlo al cinema e poi reiteratamente in home video: un trionfo. Ahimè si aggiungono alla lista il remake di Old Boy e altre cose a dir poco trascurabili come la storia del partigiano nero dove recita anche Favino. Già, ecco, ma Summer Of Sam? Mamma mia, forse è davvero il film del Martin Scorsese nero.
Tutto ciò per dire che di Spike Lee hai visto tutto, compreso un video girato nientepopodimeno che per Eros Ramazzotti. Non c’è quindi bisogno di elencare oltre.
Ultimamente si era un po’ perso, e pensavi di non ritrovarlo più. Ci sono stati due film, di cui uno fatto col crowdfunding – si vede che Ramazzotti non paga bene –, e un altro gagliardo come quello: entrambi ignorati dalla distribuzione nostrana, e recuperati grazie al vituperio degli italici esercenti che te lo ha piazzato in streaming, da vedere quando ti pare e come ti pare, anche coi sottotitoli in portoghese.
Perduta ogni speranza, Spike Lee fa di nuovo una magia. Un nuovo SPIKE LEE JOINT, stavolta distribuito come John Coltrane comanda, prodotto dal regista di Get Out, anche lui nero, con protagonisti il figliolo di Denzel Washington (ah, Denzel ha fatto con Spike roba come Malcom X, tre ore e rotte che passano come venti minuti, He got game e altri già detti qualche rigo sopra; quelli bravi direbbero “attore feticcio”) e il novello prezzemolo Adam Driver.
BlacKkKlansman, con le K di Ku klux Klan: quando t’è capitata sotto mano la sinossi c’è quasi scappata l’erezione. Appena uscito, sei corso al cinema, e son stati sorrisi, e poi di nuovo i fiordalisi. Pazienza se è doppiato: vorrà dire che potrai riguardarlo in lingua originale quelle sei o sette volte per impararlo a memoria come si conviene.
Film clamoroso, avvincente, dalla sceneggiatura di ferro, che diverte e nel contempo fa indignare nella maniera più sana. C’è il KkK, ci sono i bianchi, gli ebrei e ovviamente i neri; i nazisti dell’Illinois trasferiti in Colorado, la colonna sonora avvolgente con i bassi belli grassi e gli archi come in un disco di Marvin Gaye o di Isaac Hayes.
Sì, è ambientato nei primi anni Settanta ma è abbastanza intercambiabile con l’oggi, come dimostrano le coltellate assestate sul finale. Molti dialoghi e frasi del copione sono proprio quelle del signore dalla chioma giallo-arancione: ora comanda lui, e a Spike Lee non deve piacere molto. A questo giro ha messo anche la bandiera americana al contrario, per dire.
Donald, ti prego, fallo incazzare ancora.
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