In base a diverse serie di studi a campione condotti inizialmente da una branca poco sponsorizzata del prestigioso programma di mobilità e finanziamento Creative Europe (solo uno dei sette progetti interdisciplinari sotto l’ala dell’Education, Culture and Audiovisual Executive Agency, a sua volta sovvenzionata da mamma Commissione Europea) e in seguito appaltati a un’equipe di ricerca dell’Aristotele University of Thessaloniki composta per due terzi da tirocinanti non retribuiti ma altamente motivati (e in ogni caso del tutto favorevoli a rimandare di un semestre il conseguimento del diploma per dare il proprio contributo a una ricerca che non registrerà mai ufficialmente il loro nome, oltre che disposti – in caso di trasferta – ad alloggiare sui peggiori divani del continente) la comunità umanistica ha recentemente registrato uno dei suoi risultati più ambiti: eccolo qui.
Tramite interviste in forma di questionari a risposta aperta somministrate a cittadini europei ambosessi tra i 15 e gli 85 anni selezionati casualmente e raggiunti tramite: posta ordinaria (con allegato bollo di ritorno), posta elettronica (solo email personalizzate redatte singolarmente dagli zelanti stagisti di cui sopra), postazioni mobili presidiate (ancora una volta) dagli alacri alfieri della statistica e posizionate all’esterno di istituti scolastici (per i minorenni necessario il modulo di autorizzazione dei genitori), supermercati (previa presentazione di documento attestante – se non la cittadinanza – quantomeno la residenza sul suolo della Grande Europa), piazze principali e snodi urbani di primaria importanza (segnalati sporadici tafferugli) autostazioni, stazioni ferroviarie e persino porti e piccoli aeroporti; interviste in seguito raccolte e classificate in base a paese di provenienza, fascia d’età, sesso e quando possibile impiego (diciamolo: posizione sociale) e stato civile, dopodiché scrupolosamente consultate dall’imbattibile schiera di studenti greci all’ultimo anno il cui apporto al progresso della cultura occidentale sarà ormai evidente pesino ai più scettici. Dopo interminabili consultazioni, confronti incrociati e smistamenti condotti in base a parametri troppo complessi per essere riportati in questa sede, questi gioielli di analisi partoriti da menti accademiche e a seguire masticati e digeriti da un’umanità brulicante variamente istruita evolvono da linee di testo scarabocchiate a penna (ciascuna con il logo dell’EACEA impresso sul guscio e gratuitamente fornita ai generosi partecipanti, cosa che le ha trasformate nella più onerosa voce di spesa di tutta la faccenda) su emulsione di pasta di legno pressata a misteriose serie numeriche grondanti su supporti digitali, per rinascere infine in limpidi diagrammi, grafici a torta e vettori lanciati verso il cielo come sontuose farfalle.
Il risultato, dicevamo, forte dell’autorevolezza che solo la matematica può dare, è ormai indubitabile: secondo una schiacciante maggioranza di spettatori o sedicenti tali i film prodotti prima dello scoccare del millennio, e in sostanza quelli a cui oggi ci riferiamo con nostalgia chiamandoli “i vecchi film” e che un giorno i nostri nipoti bolleranno come “i grandi classici” (c’è chi già lo fa) mostrandoli a nipoti che a loro volta li rubricheranno alla voce “paccottiglia vetusta”, sono e sempre saranno più belli, caldi e veri di tutto ciò che è arrivato e arriverà a seguire. A motivare la loro preferenza, il numero spaventosamente alto di soggetti intervenuti ha indicato tre spiegazioni principali (riassumiamo brevemente):
- L’idea della morte come evento non particolarmente cruciale nell’economia dell’universo – visione in effetti neanche troppo peregrina – veicolata dalla sensazione di fondo – forse improbabile in decenni di monopolio benpensante dell’intelletto collettivo, eppure possibile – che la vita non costituisca alla fine dei giochi un valore di per sé (pensate alle spoglie tiepide o definitivamente gelide di Alfred Hitchcock intorno e sopra le quali si scherza, si fa a chi la sa più lunga e se c’è tempo ci si innamora, ma anche alle tragedie familiari di Ingmar Bergman, agli inenarrabili casini di Danny Boyle, al neorealismo italiano, ai capolavori di Frank Capra – troppo ovvio?, a Rainer Fassbinder e a Aleksei Balabanov: non avete l’impressione che il vero problema sia sempre un altro?).
- Il fatto che vuoi per le pastoie religiose, vuoi per i dogmatismi politici, vuoi perché c’era appena stata la guerra (a scelta tra Prima, Seconda e Fredda, con possibilità di varianti esotiche tra cui: Golfo, Vietnam, Balcani e coloniali di ogni genere – tralasciando le varie civili, tribali, medio orientali, di liberazione e partizione consumatesi troppo lontano perché il cinema occidentale mainstream – cioè fondamentalmente l’unico a cui una statistica del genere possa rifarsi – riuscisse ad accorgersene) non si sarebbe potuto fare/intendere/suggerire/sottintendere/dire o mostrare niente, ma alla fine si faceva/intendeva/suggeriva/sottintendeva/diceva e mostrava comunque e a maggior ragione tutto.
- Una sorta di spavalderia selvaggia sul piano dell’immaginario (Osgood Fielding II niente affatto scosso dalla rivelazione che la bionda dei suoi sogni sia in realtà Jack Lemmon; quattro ore di guida ai territori Sioux per lo yankee medio e conseguenti sette Oscar; famiglie antropofaghe versate in interior design; pionieri dello spazio profondo che fumano marijuana nel cosmo; diciottenni sessualmente attratti da ottantenni; attori inglesi che transmutano in attori indiani; figli ridotti alle dimensioni di capocchie di spillo e quasi divorati da padri distratti; piccoli papaveri della mafia lieti di investire buona parte della propria fortuna per aiutare le vecchiette; vecchiette niente affatto turbate al pensiero di trapassare sbronze in luridi tuguri mentre – dall’altro lato dell’oceano – l’ignaro sangue del loro sangue convola a nozze con un nobili ispanici; potremmo continuare per sempre) che lascia intravedere un’epoca in cui il mondo, forse, faceva un po’ meno paura.
Dichiarata da anni in fase di pubblicazione e anticipata per fini promozionali a un esiguo numero di testate del settore (tra cui la nostra) – con relativo embargo stampa dalle coordinate temporali piuttosto fumose – negli ultimi mesi la ricerca sta iniziando a far perdere le proprie tracce. Se interrogate sui tempi tecnici le case editrici coinvolte (una per ciascun paese dell’UE) tergiversano e tendono ad eclissarsi, mentre le e-mail del personale EACEA in risposta alle richieste di aggiornamento risultano di giorno in giorno meno convincenti. Diverse potrebbero essere le cause: un subitaneo quanto prevedibile slittamento di fondi su indagini di più stringente attualità, insormontabili complicazioni dovute al maneggiamento di dati sensibili, contenziosi sull’attribuzione dei meriti accademici (ma dubitiamo che, anche se fosse questo il caso, i giovani eroi dell’Aristotele University of Thessaloniki c’entrino granché) o quella tesi strisciante e moderatamente impopolare leggibile anche come un: si stava meglio quando si stava peggio.
Da sempre più interessata alla diffusione della cultura che al rispetto delle istituzioni, In fuga dalla bocciofila decide dunque oggi di rompere il silenzio, e di pubblicare – sebbene in forma ridotta – quanto in nostro possesso con buona pace dell’Unione, in parte perché non avendo tuttora uno statuto reale contiamo di darci rapidamente alla macchia in caso le cose si mettano male, in parte perché di fronte ai risultati dello studio di cui sopra (titolo di lavorazione: “La percezione del prodotto audiovisivo nei cittadini UE dalle sue origini – del cinema, non dell’UE – ad oggi, ovvero: gallina vecchia fa buon brodo?”) il nostro spirito reazionario si è sciolto in ruggiti di piacere. Sognando un mondo dove non si tema di sancire la superiorità (e in questo caso, dati alla mano, si potrebbe definire una superiorità schiacciante) del vecchio sul nuovo, e in cui ogni film sia sostanzialmente una variazione sul tema di Arsenico e vecchi merletti, vi lasciamo dunque a tirare le conclusioni.
Vostri nostalgici e in odore di querela,
In fuga dalla bocciofila
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