Charlie Kaufman è interessato minimamente al fatto che i suoi film sono destinati a una minoranza di persone?
Partiamo da questa domanda, il resto verrà da sé.
C’era dietro di me al cinema, dovete pensare a uno di quei cinema polivalenti, fuori dal centro storico, non un multiplex, ma una sala da cento posti appiccicati, e giusto sul collo questa donna qualunque, nazional popolare, media, che commentava le scene come un controcanto:
Ecco
Preciso
Vai
Di nulla
Cose davvero da niente, che non aggiungevano ma puntellavano, che servivano solo a riempire un vuoto, un disagio di quella donna (la scena di sesso delle figure in plastilina è quanto di più lontano dalla fiction, ma ultra-realismo), i commenti della donna a tentare di arginare un disagio che il film ricerca, che vuole evocare nello spettatore tramite la descrizione dei tempi morti, di particolari inutili che compongono una vita.
Io allora dentro quel cinema di provincia vedevo il film con i suoi occhi (di quella donna sconosciuta che mi sedeva troppo vicino) o forse io ero e sono lei perché esistono solo gradazioni di apatia, perché le cose o sono off oppure on e se sono on c’è da starci, al gioco, all’ambaradan, o chiamatelo come vi pare. Cortazar: il mattone di cristallo; Perec le sigarette dentro una scatola di latta; mentre per Kaufmann diciamo il fine settimana a Cincinnati, un regalo da comprare per il figlio, una bambola meccanica giapponese.
Luoghi comuni o forse soltanto: invecchiare o detto meglio: fare i conti.
Con un pubblico che guarda (o che-non-li-guarda-affato) i film.
Oppure tutt’altro. Fare i conti con la vita.
Fare i conti con la propria età.
Fare i conti con il lavoro che si voleva fare da bambini, con l’idea, seppur vaga che si aveva, seppur vaghissima.
Fare i conti con il portafoglio, con le quattro settimane di ferie l’anno che giustificano un full time, fare i conti con la situazione economica e sociale, fare i conti con le nostre cene fuori, con i figli e con l’idea di fare i figli, con i fine settimana negli alberghi diffusi, fare i conti con il fatto che nelle settimane centrali d’Agosto sono tutti quanti in ferie.
Fare i conti perfino con l’Auditel, che pure esiste, con i programmi televisivi che non vedi ma di cui senti parlare, fare i conti con il fatto che i tuoi colleghi di lavoro scherzano sull’Olocausto, farci i conti.
Fare i conti con il fatto che la gente, la gente, la gente tanto per dirne una non legge. Fare i conti con la sedia a cui siedi otto ore, che deforma il tuo corpo.
Fare i conti con il fatto che si muore, che niente resta, che l’amore…, che poi comunque andiamo avanti in un clima…, fare i conti ma solo a volte.
Kaufman in Anomalisa fa sopratutto questo: i conti con un pubblico che non lo andrà a vedere, o che andrà pure a vedere il suo film ma sarà distratto, che poi dopo i titoli di coda andrà a cena al cinese, ci mancherebbe altro, che comunque fare i film non serve a niente, che niente serve a niente, che comunque fare i conti significa che non siano fatti i conti.
C’è speranza in Anomalisa?
Non c’è speranza, ma non è questo il punto. E allora cosa?
No niente.
Vai
Preciso
Ecco.
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