Essi Vivono ST02, ep03
di Francesca Cassanelli
Arrivo quando è già buio e hanno smesso di mettere la vaporwave. In alto, sopra le sbarre di un cancello arrugginito, la minuscola insegna al neon con la scritta ‘Vintage Market’ invita gli avventori a darsi certe arie. Ho fatto apposta a fare tardi, ho calcolato bene i tempi.
Raggiungo alcuni ragazzi che conosco a malapena. C’è chi chiacchiera, allora mi avvicino a quelli che bevono e ballano in silenzio. Con gli occhi trovo Ugo. È in piedi davanti a uno stand di abiti usati e parla con più di due persone che non ho mai visto prima, quindi mantengo le distanze.
Guardo intensamente il dj e desidero con tutta me stessa che alzi il volume della musica, così che conversare diventi difficile, o almeno scomodo. Prego per questo. Giro una sigaretta mentre aspetto il drink e quando arriva inizio a succhiare dalla cannuccia con avidità. Ne ordino un altro. I miei movimenti continuano ad essere meccanici.
Prendo il controllo del respiro, tendo tutti i muscoli, spingo le viscere verso la colonna vertebrale, contraggo la vescica. È uno sforzo notevole, soprattutto se al contempo ci si concentra per rilassare i lineamenti del viso.
Il tremore alle mani, a poco a poco, passa. Ricomincio a produrre saliva.
«Bevi qualcos’altro?»
«Sì, grazie.»
Quando finalmente raggiungo uno stato di quiete, ballo. Salto e lascio andare la mandibola, le braccia, le dita delle mani. Mi scateno, sgraziata, come una furia, fino a sfinire le membra. Ho la vista annebbiata dal sudore, la faccia gonfia e paonazza. Qualcuno ridacchia e mi indica con un cenno della testa.
Arriva Ugo e il suo sguardo esprime fastidio e disgusto. E vergogna, anche. È stato lui a invitarmi. «Ti presento ai miei amici», mi dice. Preferirei di no, penso, e dico che mi piacerebbe fare un giro per gli stand. Lui sembra sollevato.
Raggiungiamo un banchetto pieno di cianfrusaglie: lampade vecchie un secolo, macchine da scrivere rotte, un teleindicatore alfanumerico. ‘Alphanumeric split-flap display’, dice la targhetta.
«Come funziona?» chiede Ugo.
L’uomo dietro il banco dice che uno di questi aggeggi può compiere una rotazione completa in un tempo fra uno e tre secondi. Servono soltanto un sistema di circuiti elettrici e una tastiera sulla quale vengono composte le informazioni. Guardo di nuovo verso il dj e immagino di fare tante giravolte in un tempo compreso fra uno e tre secondi. Mi bastano soltanto una tastiera e un sintetizzatore.
Di fianco al teleindicatore c’è un televisore a tubo catodico, osservo il mio riflesso nello schermo nero. La TV dei miei genitori era identica a questa.
Se ne sta appoggiata su un ripiano in granito, sopra il cassettone con la legna. Stasera è rimasta spenta, che peccato! Seduti a tavola, io, la mamma e mio padre. I miei occhi rimangono incollati al piatto con la minestra di riso e prezzemolo. Ascolto il tintinnio irregolare dei cucchiai che toccano appena la ceramica dei piatti, poi il fastidioso risucchio. Nessuno fiata perché in casa nostra non serve parlare. Noi comunichiamo propagando nel vuoto particelle di rancore e frustrazione. Stasera poi, tutti i segnali viaggiano nella mia direzione.
Il fatto è che oggi pomeriggio mi sono nascosta nel portascope. Sono rimasta lì dentro per ore senza fare alcun rumore. Sono sparita nel buio di quell’armadio stretto che si allunga fino alle travi del soffitto. Puff! Split-flap! Svanita completamente, in meno di tre secondi. Mi hanno cercata tutti, la mamma ha pianto e ha chiamato i vicini. I nonni sono scesi in strada. In casa è calato un silenzio diverso, piacevole, fatto di pace e di cose immobili.
Sono stata bene nel portascope, inebetita dall’odore del detersivo in polvere e dal ronzio della caldaia. Il buio era completo. Niente ombre o segreti. È nel portascope, che ho cominciato a stare zitta.
Ugo si avvicina al televisore e la sua sagoma tozza e scura si materializza di fianco alla mia. Fa un passo avanti, si deforma, si espande con prepotenza fino a occupare tutto.
«Cosa guardi?»
Io non mi muovo, resto nel cubo. Dovranno trascinarmi via con la forza da questo fottuto portascope.
«Che hai?» Ugo comincia a innervosirsi.
Qualcuno si gira verso di noi e io vado più a fondo, mi infilo nel tubo catodico, divento minuscola, il mio corpo ora è quello di una settenne. Il silenzio è così denso che mi domando se io sia scomparsa per davvero. Forse hanno smesso di cercarmi. Comincio a tremare e il cuore mi batte forte. «È sparita per sempre», annuncia la voce di un vicino di casa. Split-flap! Schiocca le dita di una mano come un prestigiatore. Poi uno alla volta ‒ la mamma, di certo, per ultima ‒ si dimenticano di me.
Allora esco allo scoperto, un piedino-calza-antiscivolo alla volta.
Ritorno alla festa. Ricomincio a parlare e lo faccio a ritmo serrato. Dico cose senza senso, partecipo alla conversazione, annuisco, rido alle battute di Ugo, ballo composta imitando i movimenti delle altre ragazze, faccio domande a questo e a quello, mi interesso delle vite altrui. Voilà! La mia gola è una tastiera su cui il cervello compone una caterva di informazioni. A ogni impulso produco parole che piacciono a tutti. Sono elettrica, elettronica, in circuito, circuita. Finalmente nel dispositivo.
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