di Daniele Pasquini
Quando uscì Titanic avevo 9 anni e pertanto ero ancora disinteressato all’amore. Le uniche cose che mi interessassero veramente erano il pallone, Batistuta, Roald Dahl e la PlayStation modificata del mio amico Terenzio. Aveva un babbo ingegnere, che aveva fatto un intervento sulla consolle: grazie a un prodigioso artifizio e a un masterizzatore, Terenzio era praticamente in grado di giocare a qualsiasi titolo in commercio, senza dover ricorrere ai costosissimi originali. Era un mondo semplice e felice, dove alla noia si poteva sopperire cambiando cd, scambiandosi figurine o praticando interminabili sessioni di tedesca in cortile.
Eravamo sempre i soliti tre o quattro, va detto. Non so perché nel’87 le coppie del mio paese avessero disdegnato in massa l’ipotesi della procreazione, fatto sta che nati nell’88 ce ne erano incredibilmente pochi, alle elementari eravamo giusto due misere classi, venti animelle su per giù. Le femmine erano quattro o cinque in totale. Ma a quei tempi andava bene così, anche perché il loro interesse per Roald Dahl era superficiale, mentre addirittura Batistuta e la Playstation non rientravano minimamente tra le loro sfere d’interesse.
Quando uscì Titanic qualcosa cambiò: le femmine, fino ad allora considerate una branca a sé del regno animale, iniziarono a guardare i maschi. Fosse anche solo per schernirci, per misurare la distanza che ci separava dal loro amato Jack, iniziavano a considerarci come esseri interessanti: che tra di noi si nascondesse un artista squattrinato e gentile?
Batistuta segnava a raffica, mi spellavo i polpastrelli sull’ultima prodigiosa edizione di FIFA o su Crash Bandicot, eppure l’iceberg si avvicinava sempre più. Il mio amico Terenzio mi disse, mentre sgranavo gli occhi di fronte ai suoi nuovi dieci giochi per la Play: ma tu Titanic l’hai visto? Non è male.
Quell’affermazione mi sorprese e decisi di ignorarlo. Ma a scuola ormai le figurine dei calciatori venivano scambiate assieme a quelle del film, le bambine scrivevano le citazioni sul diario, si tatuavano le scene della pellicola con i trasferelli. Un’invasione in piena regola. Un mattino a ricreazione Simona si sbottonò il grembiule e mostrò con orgoglio la maglietta nascosta sotto la casacca blu: Rose e Jack in posa-crocifisso, a prua, sguardo perso verso l’orizzonte. Si creò un capannello e germinarono lodi di approvazione e invidia. L’impatto con l’Iceberg si avvicinava.
Chiesi a Terenzio copia del film. Lui rilanciò: vediamolo insieme, tanto non ho più voglia di giocare. A un certo punto c’è anche una scena porno, mi confessa. Ci mettemmo sul suo divano e per un’ora sonnecchiai seguendo le vicende nel piccolo schermo. La partita a carte, la partenza, la terza classe. L’incontro, l’amore impedito, l’amore dichiarato in mezzo all’oceano. Una barba sconfinata, se paragonata a una doppietta del Bati o alle meraviglie della fabbrica di Willy Wonka.
A un certo punto, infine, Rose chiese a Jack di farle un ritratto. Un ritratto nuda. Niente: mi accorsi di essere in agitazione. Terenzio mi fece: guarda lì, te l’avevo detto che si vedevano le poppe.
Avevo nove anni, eppure qualcosa si mosse. Una piccola vampata accompagnò un lieve turgore sotto i pantaloni. Un punto di non ritorno, l’impatto con l’iceberg.
Erano le sei e mezzo, avevo da inforcare la bici e tornare verso casa. Lo feci col groppo in gola, arrivai a casa sudato e mi distesi sul letto a fissare speranzoso un’illustrazione di Quentin Blake.
Dove diamine se ne scappava, l’infanzia, tutta di colpo?
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