Per chiunque si ricordi di Zoolander con quell’amore grato derivante dall’idiozia di una espressione da modelli irresistibile e comica fino all’inverosimile (ovvero la Magnum), tanto inverosimile da diventare a tratti memorabile, costui troverà con un certo dispiacere questo sequel alquanto più stucchevole.
Non è che non ci siano momenti in cui la pellicola non sia in grado di strapparci una grassa risata, figuriamoci, ma la sconclusionatezza generale della trama risulta più un effetto studiato a tavolino che una vera e propria forma ironica nei confronti del plot. Senza considerare che ogni volta che appare Penelope Cruz, le vicende rallentano inutilmente senza regalarci alcun pathos comico, come se si volesse puntare più a rintontire lo spettatore con la bellezza di un corpo femminile, piuttosto che con una performance attoriale.
Il problema è che ormai lo sconclusionato come forma narrativa è stato assorbito dallo status quo del prodotto commerciale ad un livello tale che risulta per lo più innocuo e meramente auto pubblicitario.
Quando anni fa, in una inconscia orgia tardo postmoderna, ridevamo delle incongruenze dei raccordi di montaggio e dei nessi nella catena causa effetto ovviamente sottolineati dai vari registi per mostrarci la consapevolezza che il film palesava nel raccontarci una storia sconclusionata, noi tutti ridevamo di fronte a questo gioco della stupidità. Era come vedere un nobile ben vestito (il cinema) che scivolava su una buccia di banana (la sconclusionatezza).
E la cosa funzionava in quanto lo spettatore medio aveva ormai allenato talmente bene il proprio occhio a seguire la logica della narrazione cinematografica che l’errore di scrittura o di montaggio riusciva effettivamente e immediatamente nel proprio intento dissacratorio. Ma non solo, vi era anche un carattere sovversivo e liberatorio, perché veniva messa in questione la centralità e l’integrità della trama, sollevandoci dal peso di una interpretazione qualsiasi: in Zoolander l’espressione Magnum non la si può spiegare, ma nonostante questo la si capisce al volo, basta guardarla mentre ferma in volo uno shuriken per aver afferrato tutto quello che c’è da afferrare.
Ma da Zoolander a Zoolander 2 (Twolander) sono passati quindici anni e la stanchezza di questo modello comincia a farsi sentire, soprattutto perché la casa cinematografica The Asylum ha prodotto pellicole e telefilm che portano alle estreme conseguenze il concetto di sconclusionatezza narrativa, facendoci abituare a sgrammaticature gravissime, e in questo modo normalizzando, canonizzando, normativizzando la sconclusionatezza, così che Zoolander 2, pur tentandoci, non riesce a stare al passo delle regole di genere che si sono imposte.
Non ci riesce per due motivi fondamentali: 1) è troppo poco coraggioso (anche se ci sono alcune battute che senza dubbio fanno molto ridere), perché dovendo tener di conto di un pubblico già affezionato a Zoolander, non deve assolutamente deluderlo proponendogli un film troppo diverso dalla prima pellicola, e quindi 2) Zoolander 2 ci sembra una concezione della sconclusionatezza un po’ rétro, anche perché la sconclusionatezza in sé sta diventando sempre più stancante.
In conclusione, anche se questa conclusione potrebbe risultare essa stessa sconclusionata: sarebbe senza dubbio necessario che gli sceneggiatori cominciassero a reinventarsi un nuovo modo per essere sconclusionati, senza ricorrere necessariamente alle bucce di banana dei plot o del montaggio, dal momento che, anche se continua a farci ridere, tra poco non più.
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