Jim Carrey, un amico, un padre per tutti noi. Di più: un modello.
Se ne sta sul divano, non c’ha voglia di fare un cazzo, gli va tutto male. Anzi nemmeno male, grigio. Dice sempre no, non esce mai in Piazza Santo Spirito, se ne sta in camera o sul divano a leggere tutti i racconti di uno scrittore israeliano che non va neanche di moda, che andava di moda dieci anni fa. Aspettando.
Poi un giorno va a questo incontro motivazionale, la storia è risaputa, e lo convincono che, se dirà sempre e solo sì, l’universo inizierà a complottare a suo favore.
Vola tutto, vitalismo, presobenismo, i primi dieci minuti. Poi il film si incrina, per quanto si sforzino, e si incrina per una serie di questioncine non collaterali ovvero che la stessa idea era già stata usata, identica, in Una settimana da Dio, e, sempre con gli stessi attori, anche in Bugiardo bugiardo, dove, rispettivamente, il protagonista si trovava a 1) fare qualsiasi cosa egli volesse e 2) non poteva mai dire le bugie.
Così il film o meglio, i films, scivolano da un certo momento in poi su binari piccolo borghesi/aristotelici che ci ricordano che il giusto mezzo, il niente, è preferibile al non volere e certamente più facile/giusto della totalità, che invece ha un prezzo enorme: ma io lo so che è a quello che dobbiamo puntare.
Fanculo film del cazzo.
Non l’ho manco finito.
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