“Ricordo di aver provato una grande gioia mentre tenevo stretto il mento di mio padre con entrambe le piccole mani, e stringevo le gambe sulle sue spalle in modo da non cadere da quell’altezza che per me, a quel tempo, era la massima possibile. Guardavo oltre i capi delle persone, là oltre la fiumana di gente, quando io e mio padre e mia madre camminavamo in mezzo alla calca; oppure potevo vedere meglio il mare quando invece camminavamo tutti e tre tra le immense dune di sabbia, nell’erba alta che, se non fossi stato trasportato sopra le spalle da mio padre, poco ma sicuro mi avrebbe oppresso, tra i ciuffi che la mia statura di infante non sarebbe riuscita a domare e che mi sembravano una giungla quando, invece, capitava che camminassi sui miei minuscoli piedi. Mi stupii che quelle particolari piante cresciute sulla sabbia pungessero pur senza avere le spine.
Ma le famiglie non sempre rimangono salde, e arrivò presto il tempo che scendessi da quell’altezza per tornare quatto sulla terra. Da quel momento avrei avuto accanto la mano di mia madre, sono certo abbia fatto del suo meglio, e, soltanto alle volte, quella di mio padre, ben più dura del suo mento.”
“Ho conosciuto numerose persone nel corso della mia vita e, nonostante che spesso mi abbiano sorriso, oppure che molte di loro siano state cordiali, il più delle volte mi sono sentito respinto. Vagliato. Ho così imparato a cercare la breccia nelle barriere che gli uomini sono soliti costruire: non per affondare il colpo, ma per trovare una sintonia, poiché “avevo già sofferto abbastanza”.
«Di cosa avresti sofferto?» arrivò a chiedermi uno scrittore, si potrebbe dire affermato, scettico proprio di fronte a questa condizione che sbandieravo senza alcun timore. «Di essere stato escluso ogni volta che tendevo la mano», dissi. Gli scrittori da quel giorno li ho sempre pensati chini sui libri, ma diffidenti del loro contenuto. E quella risposta che diedi a lui fu quello che iniziai a rispondere a chi, negli anni, metteva in dubbio che avessi tentato o meno questa strada. Mi sono abituato a non essere parte di un gruppo, ormai non più portato dalle spalle di nessuno.”
Questa, senz’altro, è la storia di un escluso.
“Che dire della città? Ci ho vissuto gran parte della mia esistenza. Se ci rifletto bene, mi ha sempre offerto le più svariate occasioni di vedere con i miei occhi gli altri fare di me una polpetta al momento del confronto. La città è il posto giusto per chi è maledettamente competitivo. Fuori dalla città, nella natura, non vi sono altri uomini. Vi sono bestie e piante: le une sono inconsapevoli a tal punto da fremere e strepitare per qualsiasi cosa, e le altre sono talmente consapevoli da evitare qualsiasi tipo di dinamismo. Ecco cosa mi aspetta nella natura se volessi restarvi, ma appartengo a una razza strana, un uomo, a un passo dalle une e dalle altre. Ogni tanto mi spingo – ho iniziato presto a farlo – nei boschi, tra i balzi delle rocce, e respiro l’odore di resina, di terriccio fradicio, ma so che non posso rimanere lì per sempre. Lo stesso nel mare, o nei pertugi delle rupi. Allora torno in città perché, dopo tutto, mi pare che lì sia dove le cose abbiano sempre acquistato il loro significato, ovvero in mezzo agli esseri umani. Sarei ridicolo se soltanto provassi a dire che non ho il bisogno di sentire persone confermarmi che lo vedono anche loro, come me, il sorriso di scherno dei ragazzini quando il più esile manca il bersaglio con il sasso; o non lo vedono? Quegli uomini che poi da adulti affermeranno: è da come l’individuo si comporta nella sofferenza che se ne comprende il valore. Puttanate. Da anni chiedo aiuto: sono pronto ad ascoltare e mi si tradisce.”
“Avevo appunto quattordici anni quando conobbi la ragazzina che per prima ebbe il coraggio di aprire la sua armatura, di infilare le mani nella propria breccia. E non mi ha salvato la forza di volontà, la sofferenza, non mi hanno salvato tutti i poeti, i grandi narratori che ho letto, gli adulti saggi. Lei, che aveva gli stessi quattordici anni quando ci incontrammo, il primo giorno di scuola. Lei è stata. Ma dovette passare qualche tempo prima che, distesi uno al fianco dell’altra sul grande letto di una stanza blu, ognuno con un libro in grembo, mi disse proprio quello che avrebbe voluto dirmi fin dal principio. Aveva tutto da perdere, avrei potuto mangiarle il cuore, avrei potuto deriderla e sputarle nell’anima, oppure giudicarla ridicola, vulnerabile com’era. Fu la prima volta che qualcuno si era fidato di me. Io non ne ero abituato; avevo quasi perso le speranze, ero piuttosto in collera con gli altri, sempre distanti, mi pareva di correre come un disperato incontro le persone a chieder loro un racconto, o per raccontare a mia volta, e che queste mi voltassero, all’ultimo, le spalle. «Non sei come me» mi pareva di sentirli pensare, li sentivo macchinare nelle loro teste. «Allora stai lontano, non puoi entrare» pensavano, quelli. Diverso da cosa? mi domandavo. Avrei dovuto allora adattarmi a essere un tipo ben preciso d’uomo? Ma perché avrei dovuto? Dovrei, ma perché; per passare da una prigione a un’altra?”
“Così, se devo dirla tutta, ho la forza di stare disarmato. Prima di incontrarla, per ogni volto che mi dava le spalle, mi sentivo calare nell’oblio; ora, invece, che provo ancora a bussare alle porte, non sono solo e lo faccio con più vigore. Ma quei rintocchi continuano a echeggiare, e si sentono sempre più fiochi, nel buio in cui io e quella ragazzina avanziamo, senza risposta. Per fortuna frullano ancora nella mia testa le voci di benvenuto che erano, un tempo, la mia unica salvezza, ma che nessuno ha mai realmente rimandato indietro. Almeno non sono, ora, l’unico a sentirle.”
Rispondi