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Walther Ruttmann | Opus I, II, III e IV

16 Marzo 2021 di ferruccio mazzanti

E poi davanti a lui si presentarono enormi distese di colore omogeneo: turchese, rosa, arancione,  un verde cupo. Omogenee nel senso di “prive di sfumature”, una specie di luce compatta, ma a strati. Questi colori erano inizialmente distese oceaniche in verticale, ma  si erano trasformate in una glassa che si scioglieva dentro e fuori, andando a sconvolgere i limiti , in quello che potremmo chiamare un brodo primordiale vagamente zuccheroso e sul cui sfondo si palesava un abisso vertiginoso e nero come un inferno, come la morte immobile e vuota.

Era per lui chiaro, anche se sarebbe difficile spiegare come, che quei colori così definiti non erano altro che persone. Le relazioni sociali consistevano in questo magma  liquefatto che si trasformava  gradualmente in gigantesche ruote del tempo, Kalachakra, dove figure mostruose convivono con creature di pura luce, per poi venir spazzate via in un mélange confuso e circoscritto dai limiti corporei di una persona, ovvero lui stesso.

Ecco così che comprendeva, improvvisamente, cosa fosse un individuo: una macedonia di influenze emotive visibili tramite pigmento, una società introiettata verso la profondità, giù nella dimensione inconscia dove è così terribile gettare il proprio sguardo. Gli altri, queste macchie di sentimenti, si imprimevano in lui deformando la sua superficie tramite una pressione costante, come un timbro immerso nel caramello, e lasciavano la carta umana macchiata di turchese, rosa, arancione, in qualche punto un verde cupo, così che fosse possibile ancora e ancora ricostruire il mandala pezzo per pezzo, fino a riportarlo alla follia della definizione, fino a segni complessi e astratti sul piano mobile della vita emotiva e relazionale, proprio quelle figure che erano al contempo raggi di biciclette e forbici immobili per alcuni minuti e poi realizzare, almeno così gli parve, che si era innescata una sequenza di linee che si intersecavano tra loro come lampi in un nero fluo, come neon in un incubo rilassante, secondo logiche disfatte ma evidenti grazie alle quali gli era chiaro che le relazioni sociali consistevano in questa temporalità disgregata che si andava gradualmente trasformando in dipinti astratti dove convivevano inclinazioni generiche buone e malvagie che a guardarle bene erano esattamente la stessa cosa entro i limiti corporei di una persona, ovvero lui stesso, e così via. All’infinito.

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Postato in: Anatomia di un fotogramma Tag: 2, 3, 4, Opus 1, Walther Ruttmann Fai un commento

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