- I film
Fin dalla presentazione del programma, le aspettative per il Festival di Venezia di quest’anno erano molto alte e non sono state disattese. Tutti ne parlano come di una delle migliori edizioni degli ultimi anni.
Il Leone d’oro è andato a Roma di Alfonso Cuarón. Dopo un paio di film hollywoodiani (I figli degli uomini e Gravity), il regista messicano è tornato a girare in patria, raccontando le vicende autobiografiche di una domestica e della ricca famiglia per la quale lavora (nel quartiere chiamato «Roma», a città del Messico). Girato in bianco e nero, col taglio da film d’autore classico, Roma ha messo d’accordo tutti: la maestria tecnica di Cuarón sembra finalmente al servizio di una narrazione umanistica e meno pretestuosa del solito.
Il Gran premio della giuria è andato a La favorita di Yorgos Lanthimos. Il regista greco, autore di Dogtooth e The Lobster, ha presentato un film in costume ambientato alla corte inglese, nel quale Emma Stone e Rachel Weisz si contendono il ruolo di favorita della regina. La satira nerissima e surreale tipica di Lanthimos non sembra mancare, ma forse siamo in territori più accessibili rispetto al solito: il film è infatti piaciuto anche a molti che di solito odiano il regista ed è ben piazzato per la corsa ai prossimi Oscar.
Tra gli altri film premiati ci sono: La ballata di Buster Scruggs dei fratelli Coen, un western che era nato come serie tv antologica e si è poi trasformato in film a episodi; The Sisters Brothers di Jacques Audiard, con Joaquin Phoenix, un western più classico e meno grottesco di quello dei Coen; At Eternity’s Gate di Julian Schnabel, l’ennesimo film su Van Gogh, stavolta con protagonista Willem Dafoe.
A bocca asciutta sono invece rimasti Il primo uomo di Chazelle, un biopic su Neil Armstrong con protagonista il solito Ryan Gosling, e Suspiria di Guadagnino, che dopo il successo di Chiamami col tuo nome ha realizzato un omaggio/reinvenzione del classico horror di Dario Argento.
- La querelle Netflix
Roma è stato prodotto da Netflix, la piattaforma di video on demand che sta stravolgendo il mercato cinematografico e la fruizione del cinema (e delle serie tv). È la prima volta che un film prodotto dal gigante dello streaming vince uno dei grandi festival cinematografici internazionali. Originariamente, Roma avrebbe dovuto essere presentato allo scorso Festival di Cannes. Dato però che Netflix spesso non prevede un’uscita in sala dei propri film, perché preferisce sfruttare direttamente la propria piattaforma streaming, si era di fronte al paradosso che un film in concorso nel più grande festival cinematografico mondiale non si sarebbe mai visto al cinema. Ne è nato un braccio di ferro tra Cannes, il festival imbalsamato e reazionario, e Netflix, la multinazionale interessata unicamente a monopolizzare il mercato. Una sfida tra grandi giganti gentili, verrebbe da dire. Alla fine tutti i film di Netflix sono stati esclusi da Cannes e così Roma è finito a Venezia, un festival che si è autoproclamato «attento al valore e alla qualità dei film, invece che allo strumento col quale vengono diffusi». Il cavaliere senza macchia che ci salverà tutti, dite voi? Io farei notare che anche quest’anno in laguna sono finiti molti dei film rifiutati da Cannes per ragioni artistiche e qualitative (cioè film ritenuti brutti): Peterloo di Mike Leigh, Nuestro tiempo di Reygadas, Sunset di Nemes e così via. Forse non erano così brutti, forse qualcuno era solo troppo radicale. Fatto sta che nessuno si è aggiudicato un premio, e che l’appello alla «qualità» (Boris docet) suona un po’ pretestuoso.
- Mostra d’arte o festival pre-Oscar?
A partire dal 2012, col ritorno alla direzione di Alberto Barbera, la «Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica» di Venezia si è progressivamente trasformata nella piattaforma di lancio di molti dei film che hanno poi raccolto gli Oscar più importanti: Gravity, Birdman, Spotlight, La La Land, La forma dell’acqua, Tre manifesti a Ebbing. Impossibilitata a competere ad armi pari con Cannes, che attrae ormai tutti i principali autori internazionali, ridimensionata dalla concorrenza del Festival di Toronto, che richiama la maggior parte della stampa anglofona, troppo poco coraggiosa per lanciare giovani autori radicali come fa Locarno, Venezia si prostra ogni anno di più alle lusinghe hollywoodiane. Guardate i premi di quest’anno: con l’eccezione di Roma sono stati assegnati tutti a film in lingua inglese. Da questo punto di vista, i leoni a La forma dell’acqua nel 2017 e a Roma quest’anno sembrano far felici tutti: l’industria e gli esercenti che vedono premiati film che faranno buoni incassi, la critica mainstream che gioisce di fronte a questi nuovi «capolavori popolari», le redazioni dei giornali che evitano l’imbarazzo di parlare di film d’autore troppo noiosi per interessare a qualcuno. Rimangono solo, a storcere la bocca, certi poveri coglioni in perenne fuga dalla bocciofila. Chissà che la storia del cinema, che una volta vedeva trionfare a Venezia Rashomon, Ordet, L’anno scorso a Marienbad e Deserto rosso, non finisca per dargli ragione.
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